Sa mama ‘e su sole
Era senza volto, senza corpo, una fisicità costruita dal terrore. Nella società rustica era funzionale alla pedagogia dello spavento
di Natalino Piras
Nico Orunesu, Sa mama ’e su sole (particolare)
6' di lettura
23 Luglio 2023

Sa mama ‘e su sole, omologa di survile succhiasangue e accabatora, è il massimo fantasma dell’estate nel tempo circolare, ripetitivo, dei sardi. Serviva nella canicola di luglio e nei solleoni d’agosto a tenere buoni i bambini. Era una minaccia. «Guai a bois si essites dae su lumenagliu de sa janna. B’est sa mama ‘e su sole e bo’ nche ghettat a intro ‘e su saccu!» Era senza volto, senza corpo, una fisicità costruita dal terrore. Nella società rustica era funzionale alla pedagogia dello spavento. 

Al tempo della malaria, nemmeno cent’anni fa, quando Nostra Segnora de Mesagustu si faceva la corona con i bambini morti di peste, quando le strade erano selciato e polvere, i fantasmi esistevano per davvero. Fantasmi buoni e meno buoni. Alcuni circolavano nella notte, s’erkitusu voe o vacca muliake, altri erano della luce abbagliante, malata, del giorno. Comente sa mama de su sole. Era un’immagine, chi sa, nascosta, cuata, confusa con la gente de sa vortunachin sos petitores che giravano nei selciati, scalzi o male cartatos, con una bisaccia di tela blu sulle spalle.  Apparivano nella calura allucinata e poi tornavano a scomparire.   

Una volta, in un paese di Barbagia, una, Tonnìa Dolu, la chiameremo così, madre di un figlio ucciso in una insensata faida, vedova di un marito morto pure lui ammazzato, si mascherò da mama de su sole. Era già vestita di nero, la blusa e la gonna lunga. Mise scarponi vecchi ai piedi, annodò unu mucatore logoro sul mento e lo calò sopra il volto, diventata proprio come una delle tante mamas fazzas de crapas dolentes chi creschen sos fizzos pro sa morte in frore, canta il poeta Antonio Mura.

Così addobbata, Tonnìa Dolu uscì dalla cukina affumata e comparve, figura orrifica, a un gruppo di bambine e bambini che giocavano nel cortile dell’abitazione a fianco. I bambini era come se li avesse presi l’incanto, in preda a un terrore, fermi, immobilizzati, urlanti, incapaci a fuggire. Dove scappare poi? Tonnìa Dolu muggiva, anima dannata, e ripeteva, avanzando a passo di mammuzzone, di mammoti, allungando le braccia come per afferrare tutti in un solo colpo: «So’ sa mama ‘e su sole, como bor mi mannico»!

Il panico durò fino a che la madre dei bambini, donna saggia, allertata dalle grida, scese le scale della bicocca e fattasi avanti contrastò l’avanzare di Tonnìa Dolu. Le strappò di dosso la maschera e disse: «DirgrassataNon ti bastat mai su malu patire chi das a sos ateros!» E rivolta ai bambini: «Non timetas, custa no’ est sa mama de su sole, no’ la iditesEst Tonnìa Dolu

La Barbagia, Alta Baronia, i confini con la Bassa Gallura, il Goceano, Logudoro, Marghine, Ogliastra, erano allora popolati oltre che di erkitos,  demonios,   mamas de preta e de   de abba, janas vonas e janas malas,  di mamas de su sole come Tonnìa Dolu. Lei era davvero il fantasma che usciva sulla punta di mezzogiorno per portarsi via i bambini. Come se l’avesse morsicata s’argia e invece di farla cadere prostrata la puntura velenosa le avesse ancor più devastato il tempo, il suo e quello degli altri.

Tutto era iniziato dal giorno che Tonnìa Dolu, attendeva il figlio che non tornava. Bonetazzu figlio era chiamato così per il caratteristico berretto scuro calcato in testa, vestito malamente con giacca e pantaloni di fustagno come uno spauracchio da vigna. Come il padre, Bonetazzu figlio girava con una roncola a manica lunga tenuta sulle spalle. Bonetazzu padre, ucciso a fucilate sparategli in faccia, fu esposto su una croce di campagna, issato a forza e legato con una fune ai bracci di ferro arrugginito. 

Il giorno che Tonnìa Dolu diventò mama ‘e su sole camminava nervosa dentro sa cukina annerita dal fumo, sedendosi su uno sgabello di legno davanti al quadrato del focolare, la cenere spenta. Bonetazzu non tornava. Tonnìa Dolu decise allora di andare a vedere lei, in campagna. Era un giorno di canicola, il sole fuori che picchiava e tutto arroventava. La donna mosse da casa sua che il campanile di chiesa toccava le 11. Fuori il deserto. Tonnìa aveva il camminare furtivo e inquietante. Arrivò nelle terre del fiume dalle acque bollenti sulla punta di mezzogiorno. Lo intuiva dal cielo fattosi più immobile che gravava come una cappa di piombo su di lei.  Il figlio, Bonetazzu, stava nel fango formatosi dal traboccare della fontana colmatasi per l’improvviso acquazzone del giorno prima. Bonetazzu era stato fatto a pezzi a colpi di scure.  Non un urlo, non un pianto, da parte della madre. Lasciò lì il figlio ammazzato e rifece il cammino verso il paese. Non vide nessuno, nessuno la vide. Arrivata a casa sua, si chiuse dietro la porta de sa cukina, si lasciò le vesti che aveva addosso, si mise a pulire, a riordinare, a intonacare il posto dove poi avrebbero pianto suo figlio, lei e altre attitatoras, una volta che lo avrebbero riportato prima della sepoltura. Impiegò quasi tutto il pomeriggio e nessuno sentì, si accorse, del furore di Tonnìa Dolu. Fuori il sole non smetteva. Finito che ebbe, la madre riaprì la porta e andò in caserma ad avvisare sa Giustissa.

Chi sa oggi, dove continua ad aggirarsi sa mama ‘e su sole

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