Diegu che andava scalzo e sapeva dei vivi e dei morti
Personaggio universale, mediatore tra quanto è fisico, terreno, e l’oltre
di Natalino Piras
Diegu fotografato nel 1956 da Antoneddu Bua in su contone ’e Belloi. Accanto a lui, coricato, ziu Luisi Bellina (Foto concessa da Matteo Bua)
5' di lettura
10 Gennaio 2021

Per lui ci dovrebbe essere un intero capitolo nel libro che racconta della poetica degli scalzi. In sua morte, a 78 anni, nella casa di riposo di via Trieste, 2 marzo 2005, Diegu ebbe un ricordo nella Nuova Sardegna. Poco più di una breve, il pezzo di Antonio Bassu, che però riassume la vita di chi era conosciuto a Nuoro e dintorni come Diegu ‘e Orune o Diegu Iscurtu. L’andare scalzo era un suo segno e scalzo lo fissa la fotografia in bianco/nero nel sito internet “Nugoro. eris e oje”.

Diversi commenti concorrono al racconto. Silvestra Pittalis dice che in quella foto di Matteo Franco Bua, in Su Contone ‘e Belloi, nel 1954, c’è tziu Luisi Bellina che poggia la testa sul sacco dove Diegu portava l’elemosina. Era la ricompensa che gli davano quando lo scalzo entrava nelle case perché sapeva, lui prima di tutti, prima ancora che si spargesse la voce, che in quell’abitazione era appena spirato qualcuno. Il tocco della campana arrivava dopo che Diegu era uscito, sempre sorridente, a faccia lieta. Un riso che a volte tramutava in isterico, sottolinea qualche altro commento alla foto.

Chi sa cosa agitava allora Diegu a cui tutti volevano bene. Come se ne voleva a chi, deprivato di molta altra grazia, era però conosciuto nella società rustica come unu “Missu ‘e Deu”, mandato da Dio: quanti possiedono la terra perché sono puri di cuore.

Prima dei 35 anni passati nella casa di riposo, Diegu «lo conoscevano tutti perché andava in giro scalzo, piovesse o nevicasse. Sapeva tutto sui decessi quotidiani dei cittadini, enunciando, come i grani del rosario, nome, cognome, età, professione, famiglia di appartenenza e orario del funerale». Era nato a Orune, ma era venuto ad abitare a Nuoro, a Sa ’e Sulis, luogo di immigrazione interna. Diegu «era buono, con due occhi neri sbarrati sul mondo, simili a quelli del famoso pittore Ligabue».

A giorni, come un altro suo paesano che circolava a Bitti, Sarvatoreddu ‘e Savera, anch’egli scalzo, Diegu assumeva aria ascetica e si fermava dovunque capitasse per rivolgere la faccia al cielo, incurante della canea dei ragazzini che gli urlavano contro.

È una situazione di periferia cittadina però ripartita in molte altre cronache e storie di diversi paesi del mondo. Perché Diegu appartiene alla sarditudine ma è personaggio universalmente riconoscibile. Entra nella sacralità che hanno i diversi, un mediatore tra quanto è fisico, terreno, palpabile, e l’oltre. «Scalzo, saltellante nell’acciottolato».

Così in Immagini di Nuoro paese lo ricorda Nannino Offeddu. Diegu chiamava tutti per nome, i vivi e specialmente i morti. Sapeva già tutto del morto nella cui casa entrava. A ricompensa e per esorcizzare chi sa quali spiriti maligni gli davano “in limusina” pane, formaggio, qualche soldo, altre cose da mangiare.

Con la bisaccia in spalle, Diegu apriva poi il corteo funebre, ancora saltellando. Nel racconto Vita di paese, Bachisio Zizi, grande scrittore, compaesano di Diegu, fa diventare lo scalzo personaggio da romanzo, riprendendo di lui quanto la memoria collettiva ha tramandato.

«I funerali si sono appena conclusi – scrive Zizi – col prete che intonava il Dies irae e Diego che precedeva la bara, saltellando scalzo. Diego non manca a nessun funerale. Non assiste però al seppellimento, perché non sopporta gli scrosci della terra che cade sulla bara deposta nella fossa.

Visita le sepolture degli altri morti, senza fermarsi, e lascia il cimitero prima dell’ora». Anche Zizi dice che «tutti sono convinti che Diego veda e parli con le anime dei trapassati, che sappia insomma, per sogno o visione, ciò che non è dato sapere a nessuno». E questo che entra nelle pieghe della trasformazione.

I funerali di cui parla sono quelli di un morto ammazzato di faida, un ragazzo. Bisogna vendicarlo.

È la madre, più che gli uomini di casa, a organizzare il dovere della vendetta. Per questo, dopo i funerali, fatta l’elemosina e promessagli una consistente porzione di carne di vitella, quando verrà distribuita, chiede a Diegu di dirle, di darle degli indizi, dei nomi, lui che vede le anime e parla con i morti. La madre dell’ucciso tormenta lo scalzo che per non rispondere si fa assalire «dai suoi tic e si tende con gesti smodati che soffocano ogni parola». Diegu esce e poi ritorna in quella casa.

Al culmine dell’interrogatorio dice alla donna che «si può uccidere anche per errore». Basta con il sangue. La madre dell’ucciso invece sente quello che vuole sentire.

Inventa nomi sulle parole dello scalzo e in questa trasformazione va oltre le intenzioni di chi quelle parole ha detto, Diegu missu ‘e Deu, altrimenti interprete della bontà di Dio.

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