Politica ai tempi di Rubinu e Minikeddu
I magnifici sette. Personaggi immaginari presi dalla realtà/7
di Natalino Piras
Bitti, Monte Mannu (photo by Elisa Piras)
5' di lettura
29 Gennaio 2024

Il nome compare in una poesia senza rima e dal contenuto che dire ermetico è poco: «T’iscappo a Pipinu intro ‘e su vurru allutu achenne pistizoneca m’a’ fattu regirare s’amore nugoressu de Antoni Rubinu». Ardua la traduzione letterale: «Ti mando dietro Pipinu dentro il forno acceso facendo pasta per la minestra, perché mi ha fatto rigirare (il cuore e la mente) l’amore nuorese di Antoni Rubinu». Ne deve avere avuto di fascino questo Rubinu, di sconosciuta identità. 

Al tempo della guerra fredda, anni Cinquanta del Novecento, diceva Antoni Rubinu da Orune residente a Bitti, bracciante, comunista, una figura lunga e secca, corpo affilato dentro vesti di perenne fatica, le parole come pietre: «Canno piccamus su potere su primu chi ucchidimus est a De Gasperi su sicunnu Minikeddu ‘e sos Pireddas». Alcide De Gasperi, tra i fondatori della Democrazia Cristiana, come Presidente del Consiglio dal 1945 al 1953 ebbe l’immane compito di transitare l’Italia, uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale, dalle macerie a un inizio di nazione dove si poteva iniziare a rivivere. Tante le responsabilità e le umiliazioni. Ma pure gli atti di potere. Nel 1948 dopo la vittoria alle elezioni politiche della Democrazia Cristiana, sul Fronte Popolare, comunisti e socialisti, iniziarono a formarsi i Comitati Civici, ferocemente anticomunisti, laici cattolici in difesa delle tradizioni religiose, promotori, su spinta del Vaticano, Gedda e Lombardi. Ai Comitati Civici apparteneva Minikeddu ‘e sos Pireddas, uomo di chiesa, laico, monzu li chiamavano i tipi come lui, monaci senza esserlo. Era di forte parlantina, una cartella carica di fogli di appunti sempre appresso. Con Antoni Rubinu abitavano lo stesso vicinato, Monte Mannu, che si estendeva dae Palas de creja, la parrocchia di San Giorgio, sino, circumnavigando la parte alta del paese e poi in ridiscesa, alle uscite nel Corso e in Piazza Nova. In tutti gli scontri dialettici, si fa per dire, tra il bracciante e l’intellettuale organico alle crociate, il comunista risultava sempre soccombente. Da lì il proposito di Rubinu, assolutamente irrealizzabile, di far pagare tutto a Minikeddu il giorno che il sol dell’avvenire avesse illuminato il paese, la bandiera rossa al posto della croce in punta ‘e sa turre.    

Minikeddu ‘e sos Pireddas, vestito di un completo blu scuro, la pelata poco meno vistosa di quella del fratello Munnanu, titolare di una delle mitiche taverne del Corso, compare in diverse narrazioni del paese portatile. Figura anche come antagonista di Jorgi ‘e Ledda, il maestro comunista che si batteva per i poveri e con i poveri, figura di riferimento pure per Antoni Rubinu. Minikeddu era fanatico ma sapeva come gestire diplomaticamente i furori. Per la legge del contrappasso invece Antoni Rubinu poteva essere la controfigura di Galigheddu, figura forte dell’Azione Cattolica, postino, gran camminatore, che intercalava con «A morte i rossi!» altri suoi tipici frasari, autentiche invettive, la più famosa, da Dante: «Ahi Pisa vituperio de le genti». 

Trionfatore su Antoni Rubinu, come Costantino su Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio, «in hoc signo vinces», Minikeddu ‘e sos Pireddas qualche problema deve averlo avuto con la combriccola di Vranzisku Albergoni, Tuveri, Mortadella, Giovanni Dettori e altri.

Dice la vulgata che Minikeddu fosse segnato da fanatismo, fede e dottrina al servizio di Dio e della Democrazia Cristiana. Però perdonava l’avversario dopo averlo confuso, non lasciandogli, da buon parolaio, nemmeno l’ultima battuta. Era quella la sua scuola, l’avveramento della sua dialettica, quanto lo distingueva da altri che la fede la ostentavano più per convenienza e per obbedienza che per intima convinzione. Minikeddu non aveva alcun timore di mostrarsi per quel che era, pio e devoto.

Una notte il vicinato di Monte Mannu fu svegliato dalla fisarmonica di Tuveri che accompagnava il canto degli altri gaudentes, una serenata a Minikeddu, là davanti alla porta di casa sua. La melodia, che ripeteva come ritornello lungo «Minikeddu ‘e sos Pireddas» era la stessa di «T’adoriam, Ostia divina/t’adoriam, Ostia d’amor». Nessuna blasfemia solo goliardia. 

Tutto sfuma e di quel paesaggio umano, soprattutto umano, restano più sagome che memoria antropologica interata dentro la memoria storica.

Chi sa se mai è davvero esistito così come lo abbiamo raccontato quel tempo politico che attraversava la guerra fredda senza perdere la propria identità paesana. Oggi il sistema politico e il sistema culturale che da questo è sostenuto considerano Antoni Rubinu e Minikeddu ‘e sos Pireddas alla stregua di poco più poco meno che macchiette. È una considerazione di scandalo, senza passione né spirito, senza capacità di dialettica né di crisi, in definitiva senza parola. Come una palude di arroganti analfabeti e cinici opportunisti che della loro afasia, incapacità di ragione e sentimento fanno arma. Sono gli indifferenti di cui parla Gramsci. È contro questi indifferenti che continuano a stare, vere presenze, Antoni Rubinu e Minikeddu ‘e sos Pireddas.

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