La ballata di “Mastru Juanne”
Il cavaliere della fame ancora imperversa, ad ogni latitudine
di Natalino Piras
Il bambino e l’avvoltoio, l’immagine scattata nel 1993 in Sudan da Kevin Carter
5' di lettura
2 Novembre 2022

Dice una poesia dell’orunese Antonio Satta: «A posta so bennida a dare contupro facher causa a Mastru Jubanneca est in domo mia semprer prontupius de maridu meu cumannanne». C’è come un effetto del comico nel testo nonostante Mastru Jubanne, Mastru Juanne, sia la fame, cruda, vera, che da un contesto specifico si allarga ad ogni luogo e tempo. Il libro della fame è sempre aperto. Alla vigilia dei morti dell’anno 2022, dice la conta che quasi un miliardo di persone al mondo soffrono la fame. Muoiono di fame. Peste e guerra sono sue autentiche sorelle, carrales.

In sardo, la fame – sa gana in logudorese, su famini in campidanese – è da tempo immemorabile che viene detta Mastru Juanne, Mastru Juanni in gallurese. Un lungo poema anonimo, La canzona di Mastru Juanni, rinvenuto anni fa a Tempio Pausania, parla di fame, solo di fame, ancora con l’effetto del comico, che si impossessa di città e paesi, dalla montagna al mare. Lo scrittore Salvatore Tola ha dedicato a Mastru Juanne un altro intero libro, Il cavaliere della fame, puntuale repertorio della letteratura esistente sul personaggio. Noi, come Barbagia e dintorni, siamo appieno dentro questa letteratura. La poesia con cui abbiamo aperto questa ballata è nel volume Poesia orunese e storia locale, opera voluta dall’allora amministrazione comunale, 1987-1989, sindaco Giovanni Chessa. Il libro è una interessante ricerca fatta dagli alunni e dagli studenti delle scuole elementari e medie. Contiene tra le altre cose una lunga poesia di Buscente Lardari, alias Vincenzo Goddi, ancora dedicata a mastru Giuvannicu, Jubannicu, oppure Giuvanneddu, insomma lui, Mastru Juanne detto con diminutivi che niente sanno d’affetto. Siamo al tempo della seconda guerra mondiale. Tutti, la maggior parte dei paesani, elencati in maniera partecipe da Buscente Lardari, individui e nuclei famigliari, vanno alla cucina popolare, di istituzione governativa, perché a casa loro si è insediato Mastru Juanne. Annotano gli alunni-studenti curatori: «Il poeta descrive sempre in modo satirico il malcontento di chi riceveva il “piatto di minestra”, a volte salato, a volte insipido, quasi mai ritenuto idoneo a far tacere la fame».

Analogo tema a Bitti. Dice Cosimo Sanna, Gosomeddu, coevo di Antonio Satta e Buscente Lardari: «Su baranta tres it unu annu de carestia e vinas sa tracatìa versaian a s’ammassu, unicu conninzu grassu». Sa tracatìa, le bacche rosse del lentischio, sa chessa, produceva un olio rossastro, rancido. Olio d’oliva, ozzu ghermanu, non ce n’era. Era tempo che a Bitti e altrove il pane nero, de ogliazzu, prevaleva su quello bianco, limpiu, e il caffè lo si faceva, quando lo si faceva, dalle ghiande, sa lanne per i maiali. Erano tempi che per aumentare l’impasto per il pane, in Ogliastra mischiavano terra argillosa e a volte grattatura di ossa di morti dentro la farina o la crusca, su chiagliu. In molta Gallura, specie in quella che oggi è paradiso per ricchi e poveri arricchiti – Deus mi sarvet dae s’omine agganitu e dae su poveru irricchitu – per sfamarsi mettevano a bollire su verulone, la ferula ancora verde.

E tanti altri segni di Mastru Juanne: nome comico, apotropaico, esorcizzante, proveniente forse da Zanni, quanti erano buffoni e giullari che attraversavano in lungo e in largo una geografia della fame, l’Europa nel Medioevo, nel Rinascimento, in età moderna e contemporanea. A nome cambiato, tanti altri nomi, Mastru Juanne imperversava e continua a imperversare, a flagellare l’Asia, il Medio Oriente e le porte d’Europa, leggi Ucraina invasa dalla Russia e prima dall’Unione Sovietica di Stalin (sette milioni di morti causati tra il 1930-31 dalla carestia chiamata Holomodor), l’Africa soprattutto, le Americhe, prima e dopo la grande depressione del 1929: quanto documentano tra gli altri Furore, il romanzo del premio Nobel John Steinbeck e il film che ne ha tratto John Ford. Nel suo Canto General, Pablo Neruda, così descrive i viaggi verso il Nuovo Mondo dopo la scoperta dell’America, la soldataglia di Cortez e Pizarro, garras y barbas rojas de Castilla che portavano, dentro el buque, il ventre della nave, «el hambre antigua de Europa, hambre como la cola de un planeta mortal». Hambre è la fame, la stessa che nel Seicento popola il romanzo immortale di Don Chisciotte e pure l’altro anonimo di Lazarillo de Tormes. La stessa fame, tre secoli dopo, che ad Auschwitz, il lager del genocidio per antonomasia, mise a morte padre Massimiliano Kolbe, offertosi al posto di un altro condannato.

È da tempo che inseguo Mastru Juanne, per combatterlo, per quanto possono le armi della scrittura. Impossibile impresa. Il fantasma si ripresenta in infinite mascherature: personaggio da Mercoledì delle Ceneri, di infinita Quaresima, che si è mangiato pure il tempo grasso del Carnevale. «La fame ha giorni lunghi» dice Padron ‘Ntoni nei Malavoglia di Verga. Longu chei sa gana, suona così in sardo. Mastru Juanne imperversa, agganituvrade de s’appetitumaritu de Segnora Carestiababbu de Calamidade e Miseria, Bisonzu e Famineriu. La fame nel mondo nostra contemporanea continua a segnare il trapasso di Mastru Juanne dal comico al tragico.

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