La sapienza del cuore di segnos Giaveri meglio conosciuto come Trochedda
Don Saverio Depalmas fu provicario a Loculi, parroco a Onanì e poi storico parroco di Gorofai
di Natalino Piras
Don Saverio Depalmas
5' di lettura
24 Luglio 2022

Sacerdos in aeternum più di lui non ce n’è. Era tanto arguto quanto umile, di cuore semplice eppure pronto a contrastare con la parola i superbos: si trattasse di confratelli ma pure di superiori.
Segnos Giaveri, don Saverio Depalmas (Lodè 24 ottobre 1872 – 29 settembre 1965), conosciuto come Trochedda, tziu Giaveri in maniera confidenziale, ricorre spesso nelle narrazioni dell’alta Baronia e della Barbagia.

Le sue prediche, molte in sardo, sono rimaste proverbiali.
La più famosa è la conversione di San Paolo, dove « Paule virma! » intimato da Dio a Saulo perché la smetta di farsi persecutore dei cristiani, fa da centro a tutta la vicenda. Sarà il cavallo da cui Saulo è stato sbalzato sulla via per Damasco a risultare necessaria vittima sacrificale, caduto « musterchitu » dopo che Nostro Signore aveva sparato in fronte all’animale « unu paiu ‘e corfos de balla vene datos, chin s’archibusu tzeleste! ».
Gli incipit delle prediche di Trochedda variavano a seconda che avvertisse le mamme dei ragazzini che non andassero a « s’orteddu in palas de creja » a fare i loro bisogni oppure, piatto, forte, dopo il rituale «Sia lodato Gesù Cristo» il rivolgersi così alle parrocchiane, principalmente a loro: « ’Eminas meas e homines de tottu sor diaulos ».
La fissa per le donne, invenzioni di sana pianta, è una costante nelle narrazioni su Trochedda. C’è un inventario che passa dal casto al comico, da situazioni che hanno come riferimento la strada ad altre in su okile, la casa e il focolare domestico intorno a cui ci si riscaldava e si tessevano storie.

Don Saverio Depalmas, ordinato sacerdote il 21 settembre 1895 fu lo storico parroco di Gorofai, parrocchia povera rispetto a quella ricca di Bitti della quale fu titolare per mezzo secolo il canonico Sebastiano Respano. Prima di Gorofai don Depalmas fu provicario a Loculi e da qui, «male sopportava la pesantezza del clima baroniese, infestato allora dalla malaria», mandato parroco a Onanì. Da Gorofai andò via accompagnato sino a Lodè da un corteo di gente a cavallo e in macchina. Raccontano che facesse fermare l’automobile, guidata da Tomasinu ‘e Lunzinu, a Lula, per far salire vicino a lui, nel corteo trionfale, prete Dui, allora ridotto in estrema povertà. Il suono delle campane di commiato arrivava, potenza dell’eco, dalla chiesa del Salvatore all’imbocco della strada de Sa Mela. Disse allora don Giaveri a prete Dui: « Rimunnè, a las intennes sas campanas chi sono sonanne pro mene, tantu mi cheret bene sa tzente de Goreai ». E don Dui: « Sicuru ne sese? Nanne chi sono sonanne in groria potet essere chi siet pro ti nche dispedire in manera chi non bi torres prusu ». Don Giaveri tutto accettava, tutto sopportava. Era maestro nel diritto di replica. Rimase sempre prete semplice. Una volta si ruppe una gamba e fu ricoverato in ospedale a Nuoro. Andò a trovarlo il vescovo, monsignor Melas, che lo salutò cordialmente: «Come va, come va, come va, caro don Depalmas?» E Trochedda: «Come vuole che vada? Non mi vede? Va come deve andare, come vuole lei, eccellencia!» Su quell’eccellenza vescovile che segnos Giaveri pronuncia come «eccellencia» vasta è l’aneddotica. Riguarda situazioni di Trochedda con le donne, equivoci, scambi di persona, sarcasmi. Su tutto prevale la sapienza del cuore del curato di campagna che demistifica, a suo modo, meccanismi e ingranaggi di vulgate false, voci malevole, verità di parte, prevaricazioni. Si impone la capacità del personaggio di istituire fascino di narrazione, di adattarsi al ruolo che su contu ha ritagliato e vuole per lui. In fondo tutti hanno memoria buona di Trochedda. Le sue facezie e arguzie sono fonte di riso e sorriso. Dicono che facesse anche l’esorcista ma si trattava di cose da poco conto, ormas de casu che si mettevano a ballare, luci di candela che si accendevano e spegnevano, superstizioni che sconfinavano nella burla.

Nel romanzo Isalle di Michelangelo Pira, pubblicato postumo nel 1996, c’è la disputa che Trochedda, qui abbreviato in Troche, sostiene con un dotto predicatore quaresimalista, «forestiera arca di dottrina», che dal pulpito della chiesa di San Giorgio, a Bitti, invoca punizioni divine per i peccati del popolo. Seduto sotto sa trona, ormai vecchio, sofferente, tabaccando di naso, segnos Giaveri ribatte, in sardo, a tutte le accuse del passionista, che predica in italiano e latino. Risponde Trochedda, dal basso: «Tu dici non rubare ma non è vero che ho rubato. Ho molti figli e non posso lasciarli morire di fame». Così per tutti gli altri peccati. Infine le parole di Trochedda spiazzano il passionista. Così replica segnos Giaveri al fuoco e alle fiamme invocate dal predicatore: «Cristo avrà pietà di noi. Vede tutto quello che soffriamo e non può non avere pietà di noi che combattiamo dalla nascita alla morte con tutti i diavoli della miseria, delle cattive stagioni, delle malattie, del sangue, delle tasse e della giustizia. Cristo avrà certamente pietà di noi, che viviamo nell’inferno di questa terra, perché a noi di queste parti il battesimo non basta a farci liberi da Satana. Ci vuole un supplemento della infinita misericordia di Cristo».
Il lascito di Trochedda è quello di vedere contento non un Dio terribile ma un Dio di misericordia.

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