Sar festas de su mese de lampatas
Dal Corpus Domini a San Pietro correva quasi l’intero mese di giugno
di Natalino Piras
Giuseppe Biasi, Corpus Domini (1934 ca)
6' di lettura
2 Giugno 2024

Dae sa die de su Segnore, Corpus Domini, sino a Santu Pretu, il 29 giugno, correva quasi l’intero mese, nella prima decina e il penultimo giorno de làmpataslàmpadaslàmparas, tutte parole di luce.  Hanno radice e estensione in lampathu: riverbero di scintillante granito nel cupo verde di acqua lustrale. Così lo vede e lo sente Costantino Nivola, ideatore di piazza Satta a Nuoro, nel carteggio con Romano Ruju, scrittore dei moti di Su Connottu, geometra direttore dei lavori di quella piazza, negli anni Sessanta del secolo scorso. Làmpatas mese annunciatore di messi, intorno all’aia, balli, grida selvagge, antico retaggio di civiltà contadina e pastorale.

In quella civiltà, Corpus Domini e Santi Pietro e Paolo era il tempo, prima del Concilio Vaticano II, che entrambe le festività risultavano segnate in rosso nel calendario, alla stregua delle domeniche. Feria scolastica per i bambini perché sa die de su Segnore cadeva sempre il giovedì successivo alla festa della Trinità. L’anno scolastico finiva invece intorno al 13 giugno, San’Antoni de Padua.

La memoria di Corpus Domini è veicolata da una sequenza: Lauda Sion Salvatorem lauda ducem et pastorem in hymnis et canticis. Così a Bitti, nella chiesa di San Giorgio, cantavano in coruin palas d’artare, i fratelli Bitti: Zeleddu, Modesto e Agosto. E altri: Juanne Cordeddu, Juanne Mannu, Pascaleddu Mannu, sos Diddones.  Era un coro potente, berborosu, a tratti fragoroso, a nuda voce, prima che entrasse l’accompagnamento dell’armonium di tziu Bulloni, il sacrista.

Il pomeriggio di quel giorno di festa la processione pomeridiana attraversava l’intero paese ornato di artareddos dove avrebbe sostato il Santissimo, l’ostia consacrata chiusa in un ostensorio dorato. Molti fiori nel cammino percorso da devoti, pie donne, oranti e litanianti, diaconi e bambini in tunica e cotta. 

La sera di vigilia, tzia Rukitedda preparava il pranzo nel rione basso di Cadone. All’ora della processione sarebbero passati i morti. Dovevano, secondo tradizione, trovare la tavola imbandita: macarrones fatti a mano, ravioli conditi con molto formaggio e sugo di carne, arrosto d’agnello, insalata di lattughe, patate arrosto, pane, un fiasco di vino. Niente poteva essere consumato dai vivi prima che le care ombre fossero passate a nuscare, saziandosi di tutti quei buoni odori. Anche nell’altarino preparato all’ imbocco tra via Valsugana, oggi via Luigi Boe padre e figlio (uno morto nella battaglia del Piave l’altro in quella di El Alamein) e via Brigata Sassari, tra domo de Tziata Meridda e sa buteca de Diegu Chizzai, il sacerdote in piviale bianco alzava l’ostensorio. Poi la processione avrebbe ripreso sino a S’Anzelu dove iniziava la risalita per la chiesa di San Giorgio. Più giù, in pratza ‘e Cocconeddu, il Giordano, Rivu’ e Tzardana, scorreva a cielo aperto. L’ aria echeggiava di canti e di spari a salve. 

Di quel tempo scrive anche Salvatore Merche, parroco di Oniferi, nel romanzo I figli della Salvatica(1927 e 1938). Il libro apre con la festa di Sant’Isidoro e poi ci sono la nuova semina, la mietitura, la tosatura, il Natale, la Pasqua, il Corpus Domini. Un tempo lento e poi accelerato, devastato dalla guerra del 15-18 che entra nel circuito chiuso del piccolo paese, Veraneddu, dapprima con le voci sulla sua imminenza, poi con le cartoline di precetto, poi con la partenza dei chiamati, poi con le paure di chi resta, poi con i bollettini ufficiali con i nomi dei caduti. 

Intanto giugno continuava ad avanzare. Una settimana e un giorno dopo la festa di San’Antonio da Padova si celebrava il solstizio d’estate, il 21 giugno. Erano sas ‘ochinas, i falò, a fungere da centro. Cantos e ballos, giuramenti e comparie saltando il fuoco. Davanti e attorno ai falò si consumava insieme il pane e insieme si beveva il vino. 

Ai Santi Pietro e Paolo iniziava a farsi sentire il caldo. Nel vasto salto del paese, in luoghi di grano, ci si preparava per la mietitura e pro s’agliola, l’aia. Santu Pretu era stato patrono di Bitti prima di San Giorgio. Santu Perdu era e rimane patrono di Orgosolo come testimonia Monsignor Calvisi nel secondo libro della sua opera omnia Figure e tradizioni del nuorese (1968 e 2022) nel godibilissimo racconto Ziu Monzu. «A dieci anni Garalu Marzane, soprannominato “Monzu”, monaco, aveva servito gratuitamente come sacrista, per un voto fatto da sua madre, quando, ancora in fasce, era guarito di una malattia mortale. Avrebbe voluto servire ancora per qualche anno il patrono San Pietro sia per devozione sia perché tra scampanate e funzioni, il lavoro gli fruttava mance ai battesimi, pane bianco e carne agli sposalizi». Per necessità, Ziu Monzu tutto questo dovrà lasciare.  

Ricordo l’ultimo San Pietro di festa comandata al mio paese. Era il 1963. Nel salone parrocchiale, stracolmo, c’era la diretta radiofonica dell’incoronazione di Paolo VI. Un canto di letizia si diffondeva nell’aria: La nave di Pietro sull’onda come attacco e festevole risuona come ritornello. Era stata composta per Pio XII. In seguito, quel canto, accompagnato dalla fisarmonica, divenne l’inno dei goliardi di paese. 

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