Il narratore della civiltà contadina
Popollu Serra, dorgalese, fu notaio ma anche pittore e scrittore
di Natalino Piras
Bartolomeo Serra nelle vesti di messatore
6' di lettura
27 Giugno 2021

All’anagrafe risulta Bartolomeo Serra (Dorgali 10 aprile 1922 – 2 maggio 1998), conosciuto a Nuoro e in diversi paesi della provincia come su notaiu Serra. Ma fu tanto altro.
Era amico di padre Ernesto Balducci, planetario organizzatore della speranza e nel 1980 redasse l’atto costituivo del “Centro di Cultura Don L. Milani”, a Dorgali, dove aveva iniziato a formarsi nel 1976. Popollu ne era stato il fondatore e ne rimase a lungo presidente, nel segno del priore di Barbiana che con Lettera a una professoressa anticipò molte contestazioni del Sessantotto.

Popollu Serrra era un uomo di corporatura minuta, gli occhiali perennemente in punta di naso, sempre in agitazione, come uno stato febbrile. Caratteristici i suoi papillon, a dargli l’aspetto di un signore all’antica, lui che prima di essere stato notaio fu contadino, mietitore tra i più abili nelle vallate di Oddoene e nelle estensioni di Isalle. Conosceva bene quei luoghi, la loro storia, le lotte, pure le guerre civili per la loro proprietà tra Dorgali e Orune.
Gli piaceva dipingere la montagna, il mare, le vallate, la terra e il cielo.
Raccontava di una volta che, al tempo di una nevicata, seguì Pietro Mele, pittore insigne, e arrivati in un punto da cui si dominava tutta Dorgali anche Popollu vedendo il maestro assorto nel dare campitura di paesaggio, alla tela, si mise anche lui all’opera. In silenzio, per tutta la durata di quel dipingere. Infine, prima di rientrare, Popollu mostrò il suo quadro a Pietro Mele che osservò, annuì, non aggiunse altro.
L’anno dopo, sempre in tempo di neve, stesso copione e prima di tornare in paese Popollu mostra il quadro a Pietro Mele che anche questa volta osserva, annuisce e alla domanda “ite parede?” dice: «Mi parede chi b’at prus nive de custu passatu».

Popollu Serra aveva una sua visione del mondo come prospettica e come ritorno al vissuto. Nel segno di padre Ernesto Balducci e don Lorenzo Milani che molta importanza attribuivano alle periferie del mondo come fattore pedagogico, come centro dell’avverarsi dell’uomo nella sua humanitas, nell’umanesimo.

Nel 1996, Il Maestrale pubblica Repertorio 0. Un notaio racconta, opera d’esordio di Popollu. Il mondo raccontato da un notaio è come un inventario di cose e insieme affresco di vite e fortuna. (Inevitabile il paragone con Il giudizio sattiano dove è un notaio appunto, don Salvatore Sanna Carboni, a muovere e far muovere le storie e l’interesse). Tutto ruota e si consuma per un atto, per una scrittura delle parti, «i repertori su cui dovranno essere annotate tutte le pratiche». Repertori che siano anche testimonianza dell’essere imparziali da parte di chi li istruisce. Ma si può esserlo fino in fondo, quando il numero di repertorio è lo zero?

Quando si fa atto della propria memoria privata strettamente legata al mondo, ai corpi e ai tipi, che per tutta una vita sono entrati e usciti, come in un palcoscenico, dal tuo Studio? I racconti, 13 in tutto, iniziano nei lontani anni Cinquanta del secolo scorso, ambientati nella terra sospesa tra l’antico e l’apparire del moderno, tra la fine del tempio contadino e l’avvento dell’Anic, il dio petrolio, le fabbriche bugiarde, il fallimento industriale «Nella sala d’attesa del mio studio – confessa il notaio pittore – mi è piaciuto esporre due piccole tele: Ottana 1968 e Ottana dopo 1978».

Il senso del raccontare di Bartolomeo Serra è nella registrazione di come questo tempo sia trascorso, passato e per certi aspetti trapassato.

Ziu Santoru che leggeva con esattezza l’ora nel carro del cielo e le terre espropriate ai contadini di Oliena e di Dorgali prima di farle allagare dal Cedrino: «Quando le acque arriveranno qui, ziu Pantaleo», uno degli ultimi resistenti, «non ci sarà più».

Anche la sagoma della prima Seicento, contenitore di storie e di beffe, di viaggiatori per necessità o per mestiere, ha smesso da tempo di attraversare il ponte. L’interesse del notaio che diventa cronista è allora di fare in maniera che quelle ombre abbiano un ancoramento al reale: sempre ziu Santoru, ziu Pantaleo, il vecchio ziu Toméu, sposatosi con una donna molto più giovane, per la carta bollata, per il testamento, don Antonio che briga per farsi riconoscere l’eredità di Egidio e Laura R., l’olografo dell’anziano possidente che scatena l’agitazione dei parenti. Piccole e grandi disumanità appuntate e contrappuntate. Gente rustica, pastori, mietitori, banditi (i racconti sono efficacemente commentati da 16 disegni di Gino Frogheri) che si succedono davanti agli occhi interroganti di don Giusto – c’è una storia di caccia, una morte su cui fare luce – ma anche quelli dell’artifex, il notaio stesso.

L’atto finale è di Monsignore.
«Storie notaro, sono storie», dice Monsignore, evidente alter ego di Ernesto Balducci, a proposito dei problemi di dottrina che l’interlocutore gli pone, specie sulla rivoluzione operata dal Concilio Vaticano II.
«Troppo spesso si ricorre alla dottrina». Da cattolico praticante, il notaro non può non raccordare questo lascito, un lascito di fogli scritti con chiara grafia e periodare vibrante, alla terra sospesa che tutti i giorni continua a ritornargli, al mondo che non ha fatto in tempo, volutamente, a lasciarsi alle spalle.
Dice che qualche volta si è dovuto fermare a metà strada e tradendo gli insegnamenti di Monsignore ha dovuto accettare mille compromessi. Anche questo è un lascito, «questo diario», dice in presentazione del libro Enzo Espa, dove «uomini e paesi parlano i loro linguaggi in una coerenza e compattezza di parole».
Di quella compattezza Popollu Serra rimane convinto e insieme inquieto interprete.

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