“La sibilla barbaricina” di Raffaello Marchi
Il libro dell’Isre è un risarcimento postumo allo studioso e alle sue ricerche sulle pratiche magiche dell’Isola
di Natalino Piras
5' di lettura
11 Luglio 2021

In realtà, quello pubblicato nel 2006 dall’Istituto Superiore Regionale Etnografico risulta un indispensabile libro di viaggio e di conoscenza. Vi concorrono Clara Gallini per la direzione scientifica, Gino Satta per la redazione e Luisa Selis Delogu come collaboratrice. Illuminante il preludio di Joyce Lussu che mette da subito a fuoco il personaggio più importante, Elisabetta Lovicu, colei che Raffaello Marchi chiama tiìna, maga, guaritrice e, appunto, sibilla, indovina. Dice Joyce Lussu che insieme al marito Emilio agli inizi degli anni Cinquanta aveva accompagnato Raffaello Marchi in una delle sue puntate a Orgosolo dove la sibilla abitava insieme al marito e ai figli: «Elisabetta non era cristiana. Non andava in chiesa e non temeva il prete. Mentre il prete temeva lei, e non osava criticarla che sottovoce, nel buio della sacrestia».

C’è come una contrapposizione di ruoli. Elisabetta Lovico, così la chiama Joyce, era cristiana a suo modo, consapevole che molte risposte ai mali e alle afflizioni le poteva dare il Libro della Sapienza, quello che lei, analfabeta, chiamava «perogno», da «perogno seculu secloru». Un libro finora non trovato, tramandato oralmente, contenente «le legge della giustizia per tutti gli uomini e le donne». Importante questo concetto di giustizia in una società come quella orgolese di allora, nel cuore della Barbagia, patriarcale, in perenne conflitto con la Giustizia dell’altro Stato, ma pure maschilista.

Il marito di Elisabetta, «mite e riflessivo», era soprannominato «su mìnghinu». Come dire poverittu, mischineddu.

Elisabetta, sia che esercitasse l’arte dell’interpretare i sogni sia che aiutasse i cercatori a ritrovare il bestiame rubato, sia che donasse ai poveri o esercitasse il ruolo di curatrice con le erbe o ricomponesse fratture, faceva tutto con grande senso della carità. «Basta la solidarietà e l’amore», diceva. Veniva da lei diversa gente anche dai paesi vicini e più lontani, da Sarule, da Macomer, da Urzulei. I compaesani alternavano nei suoi confronti qualche compartecipazione ma pure isolamento, indifferenza, anche vergogna. Così la descrive Raffaello Marchi: «È maga medichessa: per le lussazioni perfino il medico le manda i suoi malati. I suoi figli li ha sempre curati da sé: ne ha allevato 7.

È una matriarca. Piuttosto grassa, con camicia bianca e qualche gioiello (bottoni, orecchini, una collana stretta al collo di metallo bianco e argento) – ha parecchi denti di metallo – ben messi e puliti – gli occhi sfolgoranti». Deve avere avuto una grande forza di dentro, lei che, scrive Joyce Lussu, «ancora bella e giovanile e prosperosa e ridente nei suoi abiti splendidi e coloriti, improvvisamente morì». Forse fu lei stessa a decidere. «Io pensai – sempre Joyce – che l’avesse fatto apposta, che si fosse stufata di vivere in questo mondo di bardane e di eroi ottusi e assassini, e avesse scelto di mettersi a dormire». Tutto resta

incompiuto, tutto ancora da scrivere il Libro della Sapienza. Neppure Raffaello Marchi che definiva Elisabetta «una donna meravigliosa» scrisse mai il libro su di lei che voleva titolare La sibilla barbaricina. Questo dell’Isre è un risarcimento postumo, per Marchi, morto a 72 anni nel 1981 e per Elisabetta che da tempo l’aveva preceduto nella tomba. Evidenzia bene Clara Gallini come Raffaello Marchi resti in campo etnografico e antropologico persona dell’incompiuto. In fondo tutto il monumentale lavoro di ricerca dell’intellettuale barbaricino, fuori da qualsiasi accademia o scuola strutturata, sono un accumulo di «scratch notes», testimonianze e memorie, a volte poco più di due parole, scritte di getto e lasciate nella loro fase di appunti. Quaderni, taccuini, fogli sparsi, codificati con sigle e segni non sempre di facile decrittazione, quanto Clara Gallini definisce «asistematicità scientifica».

Eppure in queste trecento e più pagine di note etnografiche che hanno la sibilla barbaricina al centro c’è davvero tutto il mondo magico delle nostre tradizioni, dei nostri riti e miti che ancora oggi necessitano di una collocazione che non sia solamente la considerazione degli antropologi di scuola ufficiale, non sempre dotati della necessaria umiltà per comprendere il cuore di tenebra ma pure le tante illuminazioni. Quali le ebbe Raffaello Marchi. Ci sono in questi suoi appunti rimessi insieme dalla pubblicazione dell’Isre s’homine chi iscudet, a libru, chin son berbos e altri strumenti, su ballu ‘e sa barjia, usi funebri, attittos, la notte dei morti.

E ancora medichinas di diverso genere e forza, inzurgios, irrocos, cantoneddas.

Ci sono sa sùrbile e altri demoni, luoghi e spiriti. E contos, su tutti quello del Boe muliàche della Barbagia.

Al libro è allegato un cd, prezioso strumento che insieme ai testi riporta, in maniera più estesa, quanto Raffaello Marchi scriveva sulla téchne, la cultura materiale su cui poggia l’immenso immaginario, ma pure la sapienza del cuore e delle mani, della gente di Barbagia.

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