Segnos Tomas, come un libro aperto
La storia di don Tommaso Calvisi, che pacificava i litiganti e sosteneva gli oppressi
di Natalino Piras
Don Tommaso Calvisi
5' di lettura
23 Aprile 2023

Segnos Tomas c’è nel romanzo Sepultas e come nome, per dire della sua capacità di essere come anzelu de sa guardia in un mondo tempestoso, lo chiamo prete Albis. Mi capita di scrivere spesso di segnos Tomas, Tommaso Calvisi (Bitti il 3 agosto 1880 – 9 aprile 1953). Fu per oltre quarant’anni vice parroco nella chiesa di San Giorgio al suo e mio paese, imperante il teologo Respano.

Segnos Tomas è rimasto nel cuore della gente. C’è la testimonianza fotografica dei funerali: la bara scoperta, l’omaggio di popolo, poi una folla immensa dietro il feretro, portato a spalla da uomini che fecero a gara per quell’onore, preceduto dai sacerdoti celebranti e da un’altra lunga fila di donne e bambini. 

Ho scritto, vent’anni fa, per La Nuova Sardegna, “La leggenda di Segnos Tomas Cavaliere del Regno e uomo del Libro”. Ci sono forti motivazioni. Il prete era di salute cagionevole, povero fra i poveri, ma di forte carisma. Ricorreva ai «libri forti», di preghiere e di berbos, per impartire benedizioni speciali ai malati, i bambini in particolar modo. Ma pure per salvaguardare il bestiame, sa roba, da volpi, cani randagi e savuzzu, le aquile rapaci che si prendevano gli agnelli. Pure «per legare» gli abigei, impedire loro scorrerie notturne, a volte per restituire il maltolto. Era umile con gli umili e forte con i superbos. Fu insignito del titolo di «Cavaliere del Regno d’Italia» perché cappellano militare durante la grande guerra del ’15-’18 girava tra i feriti negli ospedali da campo per curare e consolare, e per il coraggio dimostrato in una situazione terribile. Correvano i bui anni Trenta del Novecento e segnos Tomas saliva con la carrozza postale da Bitti a Mamone, la colonia penale dove era cappellano. Aveva tra l’altro conosciuto e pure ci aveva parlato spesso, Alessandro Serenelli, l’assassino di Maria Goretti. Quel giorno nella carrozza con Tomas viaggiava il veterinario Bandinu. Era la stessa carrozza che portava le paghe delle guardie. A un tratto ci fu l’imboscata. Gente mascherata uscì fuori dalla macchia ad armi spianate. Il veterinario chiese ai rapinatori di non sparare, avrebbero consegnato loro i soldi, e invece quelli fecero fuoco. Lo uccisero. Sparò per tutta risposta anche segnos Tomas con un vecchio ferro arrugginito. Si dice che scaricò in aria l’arma. Aveva però messo in soggezione i mascherati, suoi compaesani, presi e condannati. Lo stesso segnos Tomas impiegò poi parte della sua vita per rappacificare le famiglie-fazioni degli uccisori con quella del veterinario. Andava dai familiari di Bandinu per chiedere che apponessero la firma alla richiesta di grazia per gli ergastolani. 

Gli si attribuivano pure poteri taumaturgici. Si dice che guarisse gli uomini dall’impotenza. Oltre che formule e preghiere consegnava ad alcuni mariti che ne facevano richiesta, in fila di notte davanti a casa sua, «una polverina bianca». Se l’era fatta preparare dal farmacista, segnos Maureddu, e serviva certamente a togliere blocchi psicologici.  

Ma soprattutto segnos Tomas fu un antesignano costruttore di pace nella società tradizionale, nella civiltà rustica del paese pastorale e contadino. Così come spegnitore di fanatismi ideologici e di reciproche scomuniche al tempo della guerra fredda, comunisti e anticomunisti, nell’immediato secondo dopoguerra. 

Una volta il maestro Jogli ‘e Ledda, segretario della sezione bittese del Pci, destinato a morire giovane, di tisi, il primo portato in cimitero senza croce, si mise insieme al banditore Sepereddu in testa a un corteo che passava davanti all’abitazione di don Tomeddu, segnos Tomas, non lontano dal corso, quasi attaccata alle case di Conconedda e di  Tzinuariu. Passava il corteo dei rossi e segnos Tomas, affacciandosi sulla bicocca, per contrasto fece ricorso alle grida dei venditori ambulanti: «E trudddas e tazzeris e palas de vorru». Una beffa che avrebbe scatenato le ire della gente del corteo se a zittire in quella maniera fosse stata un’altra persona. Disse Deledda in risposta alla provocazione: «Tziu Tò, a bois non bos toccamus». Fu poi lo stesso Jogli ‘e Ledda che dal sanatorio di Nuoro mandò una commovente lettera di condoglianze, il 26 aprile 1953, «all’egregio pievano Sebastiano Respano». Un piccolo incipit sulla carità che non viene mai meno. «Egregio Pievano, troppo in ritardo ho saputo la triste notizia della morte del segnos Tomas. Con lui è un altro della ‘Bitti vecchia’ che scompare, mi creda ne sono molto dolente. Sono pienamente convinto che è mancata una delle persone più stimate del nostro paese. Perché il povero segnos Tomas fu il missionario che da decenni si recava di casa in casa, per portare una parola di conforto e di coraggio a tutti coloro, che infermi, giacevano nel loro letto». 

Così recita l’iscrizione nella tomba di don Tommaso Calvisi nel camposanto di Bitti: «In vita ha sostenuto i deboli, pacificato i liticanti, aiutato i bisognosi, sollevato gli oppressi, curato gli infermi, incoraggiato i buoni, sopportato i cattivi, amato tutti in Cristo». 

Segnos Tomas è un libro continuamente aperto.

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