“Sos oreris” nella società rustica
Mandrones e altri misuratori del tempo affollano storie paesane e cittadine
di Natalino Piras
5' di lettura
12 Giugno 2022

Altrove sono chiamati vitelloni, basilischi, ingravidabalconi. Qui da noi sono sos oreris. Letteralmente oreri è chi conta le ore perché altro non sa, non vuole, non riesce a fare.
Oreris erano i fannulloni, i mandrones patentati, quanti, per ricorrere a un’altra metafora, se avessero trovato l’inventore del lavoro gli avrebbero ben bene risuolato le scarpe. Truncatu sas costas, per dirla in maniera più brutale. Oreris ci sono in letteratura, nei racconti di Grazia Deledda, di Salvatore Cambosu, di Monsignor Calvisi, nel Giorno del giudizio di Salvatore Satta. Affollano storie di paese ma pure di città. Hanno la piazza, su tzilleri, l’ombra del campanile come punto di ritrovo. Sono gli officianti del tempo fermo pure se niente hanno a che vedere con i rivoluzionari della Comune di Parigi, nel 1871, il cui primo atto fu l’abolizione del tempo, la distruzione di tutti gli orologi.

In quella che Michelangelo Pira chiama «società rustica», il paese contadino-pastorale che camminava a luke de ainu, così Mario Puddu nel romanzo autobiografico Alivertu, è significativo il richiamo all’ombra. Sembrano fantasmi che si allargano e allungano a dismisura. « Ite achet cusse? », era la domanda, non priva di malizia. « Umbra, si b’at sole ». Più efficace marchiatura non poteva esserci. Dice di quanto sia inutile agli altri il tempo de sos oreris, nullo il loro apporto al bene comune. Ingannano il tempo. Ci sono diversi tipi di oreris e tutte le giustificazioni sono buone per il rifiuto del lavoro. Ci sono quelli «a due schiene» nessuna delle due mucrata, piegata verso il basso, ché dura è la terra da zappare.

Ce n’è un altro, a schiena dritta, nepitu, come fusto d’albero ripulito dalla scorza, camminata decisa e importante, che in Barbagia ha conservato la parlata del Goceano: « Eh, balla! Deo canno so’ colcadu so’ colcadu, canno so’ settidu so’ settidu, canno so’ mannighenne so’ mannighenne ». Niente di più. Il tempo è contato per queste esigenze primarie. Ritorna vasto quando bisogna passare ad altro. Il lavoro, sempre lui, è da evitare perché la pala e di più il picco, « est su chi a’ mortu a babbu ». È questo impossessarsi del tempo, « d’a’ nat de tempus pro acher nudda », che a sua volta misura l’inutilità de s’oreri che « miseru no este ma est comente chi lu siat ». Nella società rustica, unu miseru è incapace di agire e pensare, mani muruddu e povero di spirito.

La summa di questa differenza tra oreri e miseru, nella società rustica che trapassa dalla campagna a presunta città, sta nel caffè Tettamanzi, nella parte alta del Corso di Nuoro, del Giorno del giudizio. Nel caffè dei signori, tutto specchi e dorature, si ritrovano il farmacista Boelle Zicheri, Bartolino, maestro Manca che incarna il vero mastru Predischedda, il parvenu Pietro Catte, vari don e nobili nessuno di sangue blu, oziosi aspiranti borghesi. L’oggetto di tutte le loro atroci beffe, la giustificazione del loro essere e fare niente, è lo scemo Fileddu che insieme alla madre, anche lei demente, vive in una spelonca a Seuna. Il consumo del tempo al Tettamanzi, letteralmente scialacquato e «bevuto», è una significativa rappresentazione della concezione del mondo che accomuna gli oziosi di città a quelli di campagna, gente del tempo fermo, popolato ancora e sempre da fantasmi, umbras, tanti per cui si dice « cusse ca er viu mortu este». L’io narrante del Giudizio sattiano ha il cimitero di Sa ’e Manca come principale referente. Usciti dal Tettamanzi ritorna pro sos oreris, il tempo circolare, curvante su se stesso oppure come un dilatarsi di gironi danteschi in orizzontale.

Nel romanzo La mamma del sole parlo di Chircantoni e Luzianu. Erano due peripatetici di paese: giratori di piazza all’infinito, uno basso, tarchiato, di faccia rossa e rubiconda, occhi bovini, l’altro magro e dinoccolato, la faccia scavata da morte in licenza. Oreris in senso stretto e allargato, summa anche loro di terribili bollature. Chircantoni e Luzianu ragionavano mentre camminavano, uno le mani dietro la schiena, l’altro come ballante l’intero corpo, le spalle aggettanti avanti e indietro, le gambe che sembravano reggere solamente sulle ginocchia sporgenti. Ragionavano di tutto e di niente, uno a testa nuda, oppure in capeddu, uno sformato borsalino segno dell’essere segnos, signore, cosinu, l’altro in bonette. Chircantoni vestiva abiti borghesi, gianchetta e pantalones di fustagno color sorcino per Luzianu. Di Chircantoni dicevano fosse capace di ingurgitare ogni giorno un lavamano di latte vischidu, yogurt. Luzianu invece mangiava nemmeno quanto un uccellino. Il loro stare insieme, il loro camminare parlando, il loro contrasto, serviva a smuovere il tempo fermo degli altri oreris.
Chircantoni e Luzianu, così come lo zingaro-vagabondo Melquiades di Cent’anni di solitudine, lo rileva ancora Michelangelo Pira, ristabiliscono una giustezza di narrazione della società rustica.

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