Bohémien in un paese di pastori
Storia di mastru Predischedda, il maestro Manca del Giorno del giudizio
di Natalino Piras
Il maestro Ganga e la sua classe (1904). Isre, fondo Piero Pirari
5' di lettura
19 Febbraio 2023

A quasi cent’anni dalla sua morte, la memoria di mastru Predischedda alias Francesco Ganga (1867-1924) ancora perdura a Nuoro, la sua città. Pure se a rendere globale il personaggio è il nome, maestro Manca, con cui viene chiamato nel romanzo postumo di Salvatore Satta Il giorno del giudizio (1977). Satta gli mette Pedduzza di soprannome che traduce proprio come «pietruzza» per farlo forse coincidere con il significato italiano di predischedda

Maestro Manca del Giudizio, cupo e demoniaco, dominato dal vizio del bere, oggetto di sollazzo e insieme di scherno da parte della gente perduta del Tettamanzi, perennemente ebbro a scuola per il divertimento degli alunni, la riprovazione dei suoi colleghi e del direttore didattico, in preda ai furori dell’alcol per questo ossessionato dall’idea della morte, è completamente diverso da quanto sono la tradizione orale e scritta intorno a mastru Predischedda. Dicono ancora diverse voci di una altrimenti inimitabile nuoresità che mastru Ganga era un uomo intelligentissimo, caritatevole, buontempone, perfettu faveddane su vranzesu. A conferma c’è quanto dice Gonario Pinna nell’introduzione al suo Antologia dei poeti dialettali nuoresi (prima edizione 1969): «Avrei desiderato inserire in questo libro un altro poeta che ben meritava di figurarvi: Francesco Ganga noto Predischedda, che i nuoresi ricordano per la sua eccezionale intelligenza e genialità. Ma di lui ci è rimasto – forse per la sua vita disordinata, forse perché soleva improvvisare – una sola poesia in dialetto, vivacissimo, di cui trascrivo soltanto la prima parte poiché la seconda è assolutamente irriproducibile».

Davvero godibile il dialogo immaginato da Predischedda tra Pride Selis e Agustina Istentu, in sa missa ‘e chitto. «Bos aberto chi dae Su Vaticanu/In Cuccubaios e in Fossu Loroddu/Es proibìu su tangu americanu/In sos ballos de lussu e de soddu». Il monito di pride Selis viene interrotto da Augustina: «Itt’es su tangucosa ‘e manicare?» Brutale la replica di pride Selis: «A mi la finis tuenasu e turudda». 

Gonario Pinna traccia un profilo insieme umano e artistico di mastru Predischedda: «grande amico di Sebastiano Satta e di Giacinto Satta, era un autentico artista; pittore, musicista (era un violinista di valore) compose parecchi “pezzi” (serenate e ballabili) e la marcia funebre per sé stesso dirigendo le prove con la Filarmonica nuorese che poi l’eseguì [maestro Peppino Rachel] proprio per i suoi funerali. Era un irregolare, un originale, un bohémien, uno scapigliato in un paese di pastori».

Quanto diverso il tono del giudizio sattiano che pure conferma tutta la genialità e l’estrosità artistica di maestro Manca, dissipata e distrutta dal vino, l’alcol come tara ereditaria (la madre beveva il fernet mentre era incinta di lui), comune denominatore per Nuoro luogo di anime dolenti, di tormentati fantasmi che hanno il cimitero di Sa ‘e Manca come punto di concentrazione.  

Mi raccontava anni fa Mario Ciusa Romagna quando insieme lavoravamo sui manoscritti di Sebastiano Satta, che Predischedda a casa sua si era fatto costruire un muro divisorio in camera da letto perché non voleva dormire insieme alla moglie, una continentale chi sa se sposata controvoglia. In gioventù, rivela il Giudizio sattiano, maestro Manca si divertiva a pizzicare Gonaria, altro personaggio tragico del romanzo. Insegnavano entrambi nella stessa scuola e maestro Manca irrideva la vocazione monacale di Gonaria (forse segretamente innamorata di lui): «Butta alle ortiche il soggolo/e parlami d’amor…» Era un’altro maestro Manca non ancora dominato dal vizio del bere.  «Aveva un pizzetto che finiva in una specie di anello, gli occhi glauchi irridenti, era già piccolo e tondo, ma era gaio». La stessa gaiezza rilevata dal poeta gavoese Pera Lavra, anche lui maestro di scuola e amico di Bustianu Satta e di un altro poeta maledetto, il bittese Amico Cimino: «Io conobbi Cimino a Nuoro, e lo ricordo seduto su di una panca di legno nella bottega del milese, in lieta conversazione col maestro Predischedda. Tutti e due libavano religiosamente – come se compissero un rito mattinale – la profumata vernaccia di Solarussa. Ogniqualvolta mi accade di ricordare Predischedda mi vengono alla mente i suoi quattro versi del genere bacchico, che in verità sono rimasti famosi: Custu sì chi recrèa/Custu sì chi l’allegrat su gargaju:/m’abbascet unu raju/si torro a buffar’abba in vita mea.» Insieme alla vernaccia del milese c’è, come professione di fede, il vino di Tatana Faragone, cui Predischedda dedica un autentico inno. 

C’è qualche altro pezzo di maestro Francesco Ganga Cucca davvero irriproducibile pure se pervaso di dissacrante genio. Ma forse, più di tutto vale il libretto-capolavoro Frate “Sole” e i Sette fratelli (1927) di Menotti Gallisay, con in copertina proprio una stilizzazione di Predischedda opera di Francesco Congiu Pes, Conzu Mandrone. Formano un’unica comarca di gaudenti e, racconta Gallisay, in una notte di neve sono diretti a Cuccubaios, zona Sette Fochiles, dove attendono ulibedda e il vino proprio di Tatana Faragone, autentico nume tutelare degli scapigliati, della loro memoria che ancora perdura, capace di far dialogare il comico con il tragico.

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