A proposito di Taedium vitae
Una riflessione sul "Male di vivere"
di III C Liceo Classico Nuoro
Tito Lucrezio Caro
8' di lettura
29 Marzo 2023

La locuzione taedium vitae denota una situazione di profonda insofferenza e noia nei confronti della vita.  Definisce una condizione umana caratterizzata dalla mancanza di valori che diano senso e direzione all’esistenza e che preservino l’uomo dalla noia e dalla monotonia. Il termine taedium possiede vari significati, tutti collegati tra loro: tedionoiadisgustofastidio. Si tratta di una tematica che ha interessato per primi gli autori latini – come Ennio, Lucrezio, Orazio – ed è giunta sino ai giorni nostri, a dimostrare quanto sia universale e imperitura. Sin dall’antichità gli esseri umani sono stati afflitti da uno stesso problema: un’irrimediabile, profonda insoddisfazione nei confronti della vita, che li porta a stare male con sé stessi in ogni circostanza. È come un peso (pondus) che grava nell’animo, è come se al suo interno ci fosse una continua anedonia (mancanza di piacere), una sensazione che non fa provare talvolta nessun interesse per la vita, infatti solo poche cose sono in grado di attirare l’attenzione e di coinvolgere. Ciò porta l’animo umano a non trovare mai pace, come scrive Ennio (239 a. C. – 169 a. C.): «imus huc, hinc illuc; cum illuc ventum est, ire illuc iubet. Incerte errat animus, praeter propter vitam vivitur», «veniamo qui, di qui andiamo lì; quando siamo giunti lì, ci piace tornare là. L’animo erra, nell’incertezza, si vive al di là o al di qua della vera vita» (fr. da Iphigenia). Con l’espressione taedium vitae, Lucrezio (98 ca -55 ca a.C.) nel suo poema epico didascalico De rerum natura esprime l’insoddisfazione che l’uomo prova nei confronti della vita. In tal modo, questo concetto viene indissolubilmente legato alla cosiddetta commutatio loci: («quaerere semper commutare locum quasi onus deponere possi»«sempre cercare di mutare luogo nell’illusione di trovare sollievo»): l’infelicità e l’irrequietezza portano l’uomo a spostarsi continuamente e a cercare pace e rifugio in altre attività, senza capire che, in realtà, l’inquietudine risiede in lui e lo accompagna ovunque egli vada. Chi ne è vittima sa che dentro non può resistere, si illude che cambiando luogo starà meglio, ma la sofferenza è una ferita interna e per poter guarire bisogna individuare qual è la causa del male, che risiede nel cuore, attraverso un’indagine interiore. Si preferisce, però, tentare di fuggire da sé rifugiandosi nel sonno, ad esempio, entrare in stato di torpore e non reagire. L’uomo si sente perso e prova dentro di sé qualcosa che non sa spiegarsi. Così, credendo che sia il luogo in qui si trova e che la quotidianità lo devasti, decide di cambiare aria e va in campagna, pensando di stare meglio; ma, arrivato in campagna, sente ancora quel “qualcosa” dentro di sé e, non sentendosi a casa, torna subito in città. Quello smarrimento lo perseguita e non se ne va. Cerca sempre qualcosa che plachi il suo animo, ma che si dimostra sempre effimero e lascia un vuoto ancora più grande dentro di lui. Egli non capisce cosa questo male sia e, credendo che provenga da ciò che lo circonda, cerca di allontanarsene illudendosi che qualcosa al di fuori di lui lo renda così infelice, pensa di sfuggire al mondo ma in realtà sta fuggendo da sé stesso. Per il sofferente il tempo sembra non passare mai: è evidente il concetto di tempo relativo e come la sua qualità sia diversa per ogni individuo, dipendendo dalla sua condizione. 

Tale tema si rivela sorprendentemente attuale poiché ognuno, prima o poi nella sua vita, proverà una sensazione di incompletezza, come un vuoto che tenterà di colmare in ogni modo, tuttavia quello che gli autori latini spiegano è che qualsiasi cambiamento esterno si attui, non servirà a nulla se prima non si agisce per cambiare sé stessi, e Orazio (65 a. C. – 8 a. C.) lo spiega alla perfezione scrivendo: «Caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt», «Mutano non il loro animo, ma il cielo coloro che vanno per mare» (Hor, Epistulae, I, 11, v.27). La ricerca impossibile della felicità tormenta la vita dell’uomo, quando non è in grado di riconoscere la causa o le cause che non gli danno la possibilità di essere in pace con se stesso, quando si sente assalito dalla noia e dalla disillusione della vita, causata dalla monotonia e dalla ripetitività degli eventi quotidiani. Questa noia spinge le persone a cercare evasione nella ricerca del piacere e nella materialità, senza mai trovare vera soddisfazione. L’uomo allora, come spiega Lucrezio, si illude che la soluzione al suo problema sia cambiare luogo, così facendo però non risolve il suo dramma, anzi sta solo fuggendo da se stesso. 

Anche oggi si cerca di fuggire dai problemi attraverso rimedi effimeri, per evitare di farsi sommergere dai propri pensieri, che si accumulano senza possibilità di sfogo, fino a quando chi prova questo tormento viene travolto dalle emozioni e si perde, non riesce a tenersi a galla, soprattutto quando non c’è nessuno pronto a tendergli la mano. Così soccombe e si lascia trascinare dalla vita senza esserne più padrone. Nella società contemporanea questo senso di insoddisfazione è amplificato dalla velocità e dalla superficialità della vita moderna. Le persone sono costantemente bombardate da informazioni e stimoli esterni, ma spesso si sentono vuote e insoddisfatte. La tecnologia ha migliorato molti aspetti della vita quotidiana, ma al tempo stesso ha reso più difficile per le persone connettersi l’una con l’altra e con se stesse, amplificando il senso di solitudine e isolamento.  

Le considerazioni sul taedium vitae invitano a una riflessione profonda sulla vita e sul nostro rapporto con essa, e ci incoraggiano a guardare oltre la superficie delle cose per scoprire la vera soddisfazione e il vero significato della vita. Lucrezio afferma che l’unico modo per essere in pace con se stessi consiste nell’indagare sulle leggi della natura e grazie alla conoscenza arrivare alla felicità. D’altra parte se la sofferenza è una ferita interna, per poter guarire bisogna individuare qual è la causa del male che risiede nel cuore, attraverso un’indagine interiore. Se è vero che le circostanze influenzano il benessere interiore dell’uomo, non sono tuttavia la principale causa di infelicità. È vero che ci si deve circondare di persone positive, ma prima si deve stare bene con sé stessi. Il peso che trasciniamo dietro di noi non ci può abbandonare né se cambiamo ambiente, né se ci rifugiamo in nuove occupazioni: dobbiamo, invece, essere disposti ad esaminare, ad accettare e, se necessario, anche a cambiare ciò che si trova insito in noi. Occorre allora applicare ciò che è esplicitato nel frontone del tempio di Apollo a Delfi, conosci te stesso, ossia prima di modificare l’esterno, bisogna capire e risolvere i problemi interiori. La risposta al nostro smarrimento, l’“antidoto” in grado di sconfiggere questa “brutta bestia” è dentro di noi: siamo noi a decidere se essere felici o no, tutto parte dal vedere il lato positivo di noi stessi e dall’accettarci così come siamo. Non possiamo voler bene e stare bene con gli altri se prima non amiamo e stiamo bene con noi stessi.


A cura degli alunni della classe III C del Liceo Classico “G. Asproni” di Nuoro: Pietro Becconi, Antonio Bonifacio, Sofia Cabitza, Chiara Concu, Lucianna Delogu, Clara Ena, Mauro Fronteddu, Maria Grazia Rita Goddi, Mariantonietta Lai, Beatrice Loi, Yuliana Usai, Lucia Tola, 
Coordinamento didattico: Venturella Frogheri

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