Le rocce antropomorfe di Pietro Basoccu
Nel volume "Bisos. Alla ricerca del tempo perduto" una raccolta di 28 fotografie in bianco e nero
di Natalino Piras
Uno scatto del progetto Bisos (photo by Pietro Basoccu)
5' di lettura
12 Ottobre 2023

Sulla materia di cui sono fatti i sogni in molti hanno argomentato e scritto, detto a parole e messo in immagine: da Shakespeare nella Tempesta, ambientato in una imprecisata isola del Mediterraneo, a Federico Fellini in Giulietta degli spiriti, da teatranti e artisti di strada a Grazia Deledda. Si gioca quasi sempre sulle dicotomie tra concretezza e illusione, tra sonno e sogno. C’è una parola in sardo che dice bene di questa materia, bisos, dall’atto de su bisare, verbo, che è insieme dormire e sognare a occhi aperti, camminare come in stato di trance, vedere e visionare, intro e oltre. Maria Noina che attraversa il bosco consapevole e presaga in Le vie del male, Efix di Canne al vento che da mendicante, pervaso di febbre, va e sosta nei santuari di Barbagia e Baronia, per tornare a Grazia Deledda. 

Tutto torna in un libro di grande forme dove la materia sono 28 fotografie in bianco/nero di Pietro Basoccu: BisosAlla ricerca del tempo perduto, testo di Giacomo Mameli (Soter, 2023). Basoccu, nato a Villagrande Strisaili vive e lavora in Ogliastra. Fa il pediatra. Ma la fotografia come passione e come mestiere, come arte e come racconto per temi, prevalentemente in bianco/nero, è una componente fondamentale del suo essere. Diverse le mostre e i libri, tutti di notevole spessore narrativo e estetico, da Fiori di carta, la fabbrica ridotta ad archeologia industriale, Luisu, la poetica del tempo contadino nella figura del padre. Da Centenari, un segno dell’Ogliastra, a Captivi, sulle carceri.

Dice in postfazione per definire la materia di Bisos che sono le rocce dell’Ogliastra, fotografate con una Fuji giapponese, un paesaggio dove non si vede la presenza umana ma la si avverte: «Ci sono edifici che grazie alla sapienza di chi li ha progettati, e alla visione di chi li fotografa, svelano una forma antropomorfa. Ricordo lo stupore che si provava nel guardare le rocce che il tempo aveva modellato, nel corso di milioni di anni, grazie a vento e pioggia, sino a far assumere alla pietra i più vari aspetti. Architetture rocciose che svettano solitarie come totem o sculture sacre, modellate dalla natura fino ad assumere tratti di esseri viventi, umani o animali, spaventosi e demoniaci, titani o esseri alieni».

Nessun tempo è perduto nella perfezione fotografica e tutti i luoghi-tempo si incontrano e sono contenuti in questo libro, storie e miti, parole e silenzi. All’inizio, Giacomo Mameli ricorda il canonico Priamo Maria Spano (Perdasdefogu 1871- Pirri 1959) che «diceva spesso che il massiccio di Monte Corongiu, tra Jerzu e Ulassai, “poteva essere benissimo un secondo Olimpo”». E tante altre comparazioni in questa Ogliastra che ha dentro di sé la fissità e la capacità di manifestazione di altre rocce della Sardegna, marmi e graniti, quelli galluresi ma pure gli altri dell’aurora per i nuovi figli poetata da Bustianu Satta. 

Apre il libro dei Bisos un paesaggio dove le rocce ogliastrine sono avvolte nelle nebbie che richiamano una barbarica Camelot. In dettaglio si susseguono rocce millenarie chi paren, a seconda della distanza del punto di visione, ora una cara de cuccumiao ora de sirvone. Poi una cavità che sembra la bocca aperta di un leone, una pietra ballerina che incombe sul paesaggio sottostante, figure rocciose che sfidano il cielo e altre, a paginone intero, che sembrano giganti addormentati. Altre rocce ancora sono abilas de Deus come negli orridi di Nurasè a Crastazza, tra Bitti e Alà dei Sardi. Emergono dalla fitta macchia mediterranea menhir che danno l’idea di ruderi di castelli delle dark ages, i tempi bui del Medioevo, una testa di drago ferito che custodisce chi sa quali introvabili tesori, ascusorjos, un’altra testa di elefante sormontata da pale di fichi d’india e poi tacchi in campo lungo mano mano avvicinantisi alla visione sino, in aura biblica, a tante rifrazioni di Perda Liana.

Nel testo, Giacomo Mameli nomina la vallata di Baccu Arenas, Pithu ‘e Monte, Olinìe e Taccu Cungiau di Talana, Errìu Pèssiu, Mammùttara, Su strumpu di Luesu e tanta altra orografia. Nomi di grande sonorità e fascino. Al centro del centro del racconto Maria Lai come Mnemosine, la Memoria, madre delle nove Muse. 

Si torna sempre alla materia di cui sono fatti i sogni. Dice l’epigrafe di Bisos, prendendo dal nono libro dell’Odissea: «C’è un porto comodo, dove non c’è bisogno di fune,/o di gettar l’ancora o di legare le gomene,/ma basta approdare e restare a piacere, fino a che l’animo/dei marinai non fa fretta e non spirino i venti». 

Tutti i testi sono bilingui, italiano e inglese.

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