Dall’albergo della luna alla festa del Redentore
Peppe Pilosu, vagabondo conosciuto dalla Barbagia alla Baronia e al Goceano da dove proveniva
di Natalino Piras
5' di lettura
2 Ottobre 2022

Nel libro dei vagabondi, un ruolo da comprimario spetta a Peppe Pilosu. Scrivo di lui da tempo ma non sono mai riuscito a recuperare una fotografia che ne renda l’immagine, un qualche segno delle sue vicende picare. Era conosciuto in molti paesi della Barbagia, della Baronia e del Goceano, da dove proveniva.
Era senza tempo. Appariva e scompariva, sempre uguale, sempre lo stesso: spalle sbilenche, traballante l’incedere, pantaloni dalle cento tasche colore de cane ‘ughinne, come quello degli altri stracci che lo coprivano. Aveva guance incavate su un volto ora nero-fumo ora rubicondo, perennemente avvinazzato, ebbro. Occhi non proprio buoni, acquosi in orbite vuote ma pure roteanti irrisione e scherno. A seconda delle stagioni poteva avere in testa una papalina o altro che gli coprisse i radi capelli bianchi. Orecchie ora a sventola ora abbassate come quelle di un bassotto. Quando si fermava, era per lanciare improperi o fare in qualche modo comizio, in una mano bottiglia o bottiglione nell’altra chi sa cosa per tenere l’equilibrio. Adoperava lingua tagliente e aveva il senso dello spettacolo. Quando se la prendeva con la gente di un intero paese forse gli era stato negato da bere, reso oggetto di parole pesanti, di uno scherzo crudele, di spintoni di troppo.
Nelle tappe del suo camminare sostava sempre all’albergo della luna, fosse caldo torrido o facesse freddo da neve. Non era mendicante in accezione comunemente intesa e non si abbassava a chiedere l’elemosina. Però teneva ai soldi.

Si diceva che da giovane avesse ricevuto una grande eredità tutta « bargaminata in bumbu»: il vino aveva preso il sopravvento.
Ripartiva con tutta la casa sulle spalle, un qualche fagotto in mano oppure messo a tracolla in spalla, alla bell’e meglio.
Pilosu aveva il senso del tragico ma pure vis comica. Una volta, a Bitti, dentro un bar per signori, si avvicinò a un printzipale che pagava il conto al bancone per aver perso a carte e gli chiese cinque lire. Il printzipale gliele negò. A Pilosu allora gli si imporporò vieppiù la faccia, gli occhi diventarono di bragia e senza possibilità di replica scagliò parole forti contro il ricco sordo a ogni carità: «Eh, balla! Si nch’aias postu pede in cussu sorigalzu!», se avessi messo piede in quella trappola per topi! Si riferiva al fatto che il danaroso senza cuore aveva da poco scampato un sequestro di persona, avevano preso un altro al suo posto, rilasciato dai banditi, previa riempitura di botte, appena accortisi dello scambio.

Un’altra volta tiravamo in leva, ultima classe 1951. Eravamo più di una trentina. Avevamo preso il pullman per Nuoro. In Piazza Nova, insieme a noi, era salito anche Pilosu. Alle curve di Luitze, il fattorino iniziò a fare i biglietti. Arrivato a Pilosu, negli ultimi sedili, anche per fare scena il fattorino gli chiese i soldi del biglietto, cinquanta lire. Pilosu iniziò allora con una delle sue pantomime mentre il pullman avanzava in tragitto periglioso, causa di tanto mal di mare per molti passeggeri. Il vagabondo si toccava sul petto, batteva forte sulle tasche di un K2 che gli andava largo, chi sa chi glielo aveva donato, affondava le mani su diverse rientranze e incavi dei pantaloni, il tutto condito da insulti e improperi contro se stesso, il mondo circostante e pure contro il fattorino. Niente. Nessuna moneta usciva fuori dalla vestimenta di Pilosu. Neppure se lo avessero munto, strizzato come un panno. Infine, qui sta il miracolo, le cinquanta lire saltarono fuori. Comparvero nelle mani del vagabondo come in quelle di un prestigiatore. Trionfante, Pilosu prima sputò sulla moneta, poi la buttò per terra e non la finiva di pestarci sopra, di calpestarla. «Mih! Itte ne vatto ‘eo de custos battor soddos ruinados!»

Ci fu un tempo che per guadagnarsi la giornata Peppe Pilosu si accompagnava a un venditore ambulante che andava in giro con un camion carico di ortaggi, frutta varia, piantine, angurie e meloni. Il vagabondo aiutava nel caricare e scaricare, nel piazzare il tendone, nello stendere il banco, nel contrattare il prezzo con una variegata clientela. Quella volta, un 29 di agosto, erano diretti a Nuoro, per il Redentore.
Poteva esserci festa senza l’arrivo di Pilosu? La strada era lunga, stretta, perigliosa, piena di curve. Pilosu se ne stava sdraiato storto nel sedile del passeggero, berrettaccio calcato sulla fronte, masticante un filo di paglia, le gambe fuori dal finestrino, all’americana. «O Pe’», fece preoccupato l’autista visto che quello non smetteva, «guarda che se ci ferma la Giustizia ci mettono la contravvenzione e ci vogliono molti soldi per pagarla». Fulminea la risposta del vagabondo che forse memore di antica ricchezza così folgorò il titubante compagno di viaggio: « Non b’a’ problema, paco ‘eo! » Chi sa quali strade percorre adesso Peppe Pilosu, questo il nome che gli rimane nelle Annales del paese portatile.

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