Campinu e Gosomeddu, l’incrocio della poesia
Campanedda dringhijola per Campinu, marratzos e campanas chene limbeddu per Battorone
di Natalino Piras
Giovanni Campus e a destra Cosimo Sanna
5' di lettura
21 Marzo 2024

Campinu e Gosomeddu chi sa se mai si incontrarono. Erano entrambi bittesi. Giovanni Campus, Juanne Campinu, nato al tempo dell’Unità d’Italia, era pastore e visse la sua esistenza tra paese e campagna, come tanti allora. Cosimo Sanna invece nacque, sempre a Bitti, mezzo secolo dopo Campinu, il 3 marzo 1902, e morì a Sassari il 21 aprile 1964. Era stato militare di carriera e come sottufficiale prese parte alle guerre d’Africa volute dal fascismo. Si dice che quando l’occasione lo permetteva, Gosomeddu intrattenesse la truppa, i commilitoni bittesi in particolar modo, recitando le sue godibilissime poesie, in sardo ma anche in un italiano goliardico, specie quelle che mettevano in scena la gente di Cadone e Garga Umosa, il vicinato de sos remitanos

È la poesia a istituire raffronto tra Campinu e Gosomeddu. 

Campinu, raccontano le nipoti Pantzela e Lucia Enedina, uscì fuori dai confini del paese, imbarcando in piroscafo a Terranova, per andare a testimoniare al processo tenuto a Torino per la morte del sindaco Angelo Mossa Naitana, ucciso con un colpo di pistola nel ballo in maschera di martedì grasso 27 febbraio 1906, a Piazza ‘e Marcatu. Campinu doveva confermare l’alibi di un imputato: al momento che il sindaco fu ucciso era con lui e un altro testimone a guardare i balli. 

Finito il processo, Giovanni Campus tornò a casa con un bel carico di campaneddas, quelle usate per il gregge, da regalare alla moglie Cherubina Laurenti, che proprio a Piazza ‘e Marcatu aveva un negozio dove vendeva di tutto. Cherubina era figlia di Domenico Laurenti, pavese stabilitosi a Bitti dopo aver terminato il servizio militare a Ozieri. 

Tornato Campinu dal continente e diffusasi la notizia, così lo «cantò» Juanne de Bomborombo, Giovanni Calvisi: «Campanedda dringhijola/vauta dae Torinu/canno si dormit Campinu/sa gama tzucat sola». La quartina, racconto d’omaggio ma pure qualche metafora, è diventata un classico, a ballu lestru, dei «Tenores diBitti», quando Tanielle Cossellu, Tancredi Tucconi, Batore Pante e Pizero non erano ancora Su Tenore Remunnu ‘e Locu. Inimitabile sa oche di Piero Sanna che rende la cristallinità e il suono de sa campanedda chi drinnit, gioiosa. Tra gli altri, Campanedda dringhijola fa parte del repertorio anche del Tenore di Orune. 

Lo stesso Tenore Remunnu ‘e Locu, variando registro, canta pure diverse strofe de S’Isposu de Battorone, 11 sestine di uno dei poemi «eroicomici» inventati da Gosomeddu versus gli umili, tra beffa e compartecipazione. 

Così l’attacco, a isterrita (in una versione si sentono pure launeddas e una fisarmonica): «Adornan sas carreras/de quadros e arazzos/e isventulan sas panneras/in mesu ‘a sos istratzos/campaneddas e marratzos/bi sonan in probanìa».  Sa torrata rivela a chi sia tributato così tanto onore nel giorno del matrimonio, dice dei benefici che seguiranno: «Cann’isposat Battorone/b’at chimb’annos de amnistia». Battorone era il banditore del paese, ultimo degli ultimi, di non gradevole aspetto, malvestito, unu bonette con l’automatico della visiera sganciato e calato in testa, la tromba d’ottone a tracolla, scarponi sfondati ai piedi. L’iperbole di beffa di Gosomeddu, insieme rovescio e cronaca veritiera dello stato di miseru di Battorone, induce al riso immediato. Non più campanedda drijnghiola ma campaneddas e marrazzos, campanacci, suono assordante. Insieme a bottosconzos e lamones, li suonavano ragazzaglia mandata da gente grande davanti alla canonica, in segno di disprezzo per matrimoni male combinati, di povera gente. In più, a futura memoria, la poesia di beffa che usa di cortei, laudi e trionfi al massimo grado del parodico, la potenza dell’impero romano e degli eserciti del duce eguagliata al mondo dolente di Cadone. Gosomeddu li fa sfilare tutti, Marrieddu chin Porcheddu, Badoi chin tziu Canale che in «coratza e chin pugnale/si presentan a Luchia», la sposa nominata per esigenze di rima. Ci sono Vavoreddu e S’Ustianu che sempre per esigenza di rima «cumannan sa vantèria» dopo che «Badoglio chin Mussolini/arrivan in aeropranu» in tempo per la solenne cerimonia nuziale. In un’altra strofa ancora il genio di Gosomeddu dice che «campanas chene limbeddu/bi drinnnin a S’Aver Maria». È un drinnire sordo anche nella variante «campanas chene limbeddu/bi sonan in sagrestia». Ci si sposava in sagrestia, di sera, dopo il tocco dell’Ave, di nascosto, quando la donna rimaneva incinta prima del matrimonio. Campane mute, senza sonaglio, ma tutti, l’intero paese, sapeva già o lo veniva a sapere.

La storia passa dal comico al tragico. È sempre la poesia a raccontare. Così Giovanni Dettori inizia In questo tempo, pubblicato da Ichnusa, nn. 50-51, nel 1962: «Il muraglione come una vertigine cieca/e dalla piazza arroventata/un suono di tromba/e il grido del banditore del paese/il suo salto scomposto nel vuoto/la morte».

Campanas mutas, silenzio assordante. Di Battorone, chi sa se esiste ancora la tomba. 

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