Bitti, Santa Ruke in Cunbentu
Ancora vivi i segni della presenza dei francescani
di Natalino Piras
Piero della Francesca, Esaltazione della Croce (particolare). Arezzo, Basilica di San Francesco, 1458 -1466
6' di lettura
26 Settembre 2021

È da poco passata, il 14 settembre scorso, la ricorrenza dell’Esaltazione della Croce, Santa Ruke in sardo, una continuità di racconto che mai smette. Sia in afflato religioso che in molto più vaste accezione e estensione. Come in un affresco di Piero della Francesca che nel suo Esaltazione della Croce (1458-1466) nella cappella maggiore della basilica di San Francesco ad Arezzo mette dentro leggende e fatti storici. È il 1855 a Bitti quando in seguito all’emanazione delle leggi Siccardi del 1850 che nella separazione tra Stato e Chiesa aboliscono molti privilegi ecclesiastici, i frati Cappuccini presenti in Cunbentu già dal XVII secolo, vengono cacciati via. Da lì la vulgata, tramandata oralmente e per qualche scrittura, della rivolta popolare – siamo sotto la dominazione piemontese che amministrava in Sardegna più con la repressione e la forca che con la farina per il pane e le riforme – dove sono le donne a urlare, in prima fila, per le strade del paese, dae bassu a susu, «sos prates cherimus!» , rivogliamo indietro i frati. Altri sottili filologi e ricercatori, di quelli che dicono di quanto il latino sia presente nel sardo, sostiene che il grido fu «patres quaerimus!». La sostanza non cambia. È il segno di quanto i Cappuccini, l’ordine dei frati minori francescani arrivati in Sardegna sul finire del Cinquecento, terribile secolo di guerre di religione, fossero radicati nel cuore della gente.

Per il loro bene operare sia nello spirituale che nel materiale.

A Bitti ne rimangono diverse tracce. Il vecchio campo sportivo, in Via ’e josso, era conosciuto come l’Orto dei Cappuccini, nella confluenza di molte acque, quelle provenienti da Macarronare diventate poi Rivu ’e mesu e Rivu ’e Tzardana, e da Lampione. Se, come vuole uno dei massimi romanzi della letteratura mondiale, i Promessi sposi, che incentrando il discorso su fra Cristoforo e sulla richiamata storia edificante delle noci di fra Galdino, i Cappuccini sono come un mare che riceve e ridistribuisce, allora c’è da ritenere che questa stessa funzione svolgesse S’ortu de Cunbentu o de Sos prates, a Bitti.

Come una proiezione nel tempo e in altre geografie quanto Giovanni Battista Demelas, sacerdote e scrittore, riporta in Bitti (1961), uno dei suoi mitici libretti di ricerca e divulgazione. Senza indicare né luogo specifico di missione né tempo, Babbai Demelas di Buddusò dice di padre Antioco, «cappuccino zelante», di padre Antonio, francescano, che «seppe ispirare tutta la sua vita al Vangelo».

Più specificatamente per l’Africa «operarono, tra il cinquanta e il sessanta del Novecento, padre Francesco, dei minori osservanti, che fu in Angola. Il Congo invece toccò a padre Giuseppe, ancora cappuccino, che ricoprì la carica di prefetto apostolico».

Ma è la Croce, la chiesa bittese de Santa Ruke alias Cunbentu, presente sin dal Seicento dentro l’abitato a distinguerla da altre campestri (tra le ricerche storiche quella di Raimondo Turtas e Giovanni Lupinu, per un libro Cuec 2005 e quelle dei compianti Giacomino Zirottu e Giulio Albergoni) che funziona da segno locale-globale nel paese portatile. Devozione e fede intersecano diversi passaggi storici. A Bitti, dopo S’Iscravamentu del Venerdì Santo la processione con il Cristo morto porta a Cunbentu e da là riparte sa Mama de su dolore la mattina di Pasqua per s’Incontru.

Altre storie dicono che le celle che furono dei frati sono servite pure da prigione. L’intera area conventuale a tremene con Santu Tomas e in cima all’attuale via Minerva dura ancora con il nome di Iskolastiku. Diverse generazioni di scolari e studenti si sono succeduti nei caseggiati edificati a ridosso della chiesa dove, è un ricordo delle nostre infanzie, la domenica andava don Mulas a dire messa. Era un premio per qualcuno di noi salire a goroppa nella moto di don Baciccia.

Il prescelto doveva saper stare in equilibrio specie nella discesa di via Brigata Sassari, tenendo in mano le ampolline dell’Offertorio e qualche paramento sacro.

E tante altre storie. Molte di queste le ha raccontate nei suoi magnifici cinque libri di figure e tradizioni, in corso di riedizione, monsignor Raimondo Calvisi. Una dice di Tanielle Laru, pastore aristocratico e abigeatario, finito in una delle celle di Cunbentu in attesa di essere trasferito alla prigione di Nuoro.

Sa Giustissa lo ha sorpreso nottetempo con una decina di vacche rubate. Il balente non sopporta l’affronto della cella e così si invoca a San Giorgio per riuscire a scappare. Impresa impossibile che però riesce all’audace proprio quando tutto sembrava precipitare.

Si sdebiterà con il Santo Patrono andando a rubare per la sua festa una bella mandria di vacche, tutte di pelo rosso, in Goceano. Quanto lontana la visione che chi sa, forse nella stessa cella ebbe il cappuccino padre Salvatore di Oliena. Correva il 27 ottobre 1683, vide mentre i fatti accadevano, nel Chaco, in Argentina, ai piedi delle Ande, il suo compaesano Giovanni Antonio Solinas, gesuita, e altri confratelli, crocifissi dagli indios che proprio da quel martirio saranno redenti.

Siamo rientrati nella Storia attraverso le prospettive della visione. Come nell’affresco di Piero è sempre l’Esaltazione della Croce a muovere ragioni e sentimenti.

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