Due stili contrapposti di preghiera
Commento al Vangelo di domenica 23 ottobre, XXX domenica del Tempo ordinario - Anno C
di Michele Casula
Il fariseo e il pubblicano, incisione di Gustave Dorè (particolare)
5' di lettura
23 Ottobre 2022

Il tema della giornata missionaria – Vite che parlano – ci aiuta a capire e incarnare nella nostra vita il Vangelo di questa domenica: la scelta del Vangelo non è fatta di parole ma di gesti concreti di spiritualità incarnata. Lo spiega bene il Papa che nel Messaggio per la Giornata missionaria mondiale sottolinea che i discepoli «sono inviati da Gesù al mondo soprattutto per vivere la missione; non solo per dare testimonianza, ma anche e soprattutto per essere testimoni di Cristo»In questa domenica la preghiera è ancora una volta il tema del Vangelo, ma l’attenzione è proiettato sul modo di pregare, che diventa rivelativo della relazione con Dio, con sé stessi e con gli altri. «Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Troviamo in questa premessa la chiave per capire la parabola di Gesù: la sua è una risposta a chi si crede a posto e giudica gli altri, a chi si pone sempre sul gradino più alto nella scala della vita di fede. Quella di Gesù è una forte provocazione e invito alla riflessione non solo per i “giusti” del suo tempo ma per me cristiano di oggi. I due protagonisti del Vangelo fanno lo stesso gesto, salgono al tempio a pregare, ma cambia totalmente lo stile e le intenzioni. Il fariseo sta in piedi con atteggiamenti di superbia e ringrazia Dio perché lui non è come i peccatori in quanto rispetta tutte le regole: il punto di riferimento è sé stesso, non Dio e la gratitudine non è rivolta a Dio ma ad esaltare sé stesso. Sant’Agostino sintetizza in pochi versi l’atteggiamento del fariseo: «Era salito per pregare; ma non volle pregare Dio, bensì lodare sé stesso». Il pubblicano, come il fariseo, sale al tempio a pregare, ma si ferma a distanza e non alza nemmeno gli occhi al cielo. Egli ha una viva coscienza del suo essere peccatore. Dimostra prima coi fatti che con le parole la sua miseria spirituale. La sua preghiera è breve ed essenziale: «Dio, sii benevolo con me peccatore». Una preghiera di domanda. Poche parole in cui si riconosce bisognoso di uno sguardo diverso sulla sua vita da parte di Dio, uno sguardo “benevolo”, uno sguardo di amore. Confessa di essere peccatore e si affida con umiltà e fiducia alla misericordia divina. La sua preghiera è rivolta unicamente a Dio. C’è spazio solo per Dio. La conclusione con cui Gesù chiude la parabola è sconcertante per il suo uditorio, ma dovrebbe porre tanti interrogativi anche a ciascuno di noi. Il pubblicano torna a casa con il perdono di Dio. Fa l’esperienza di ciò che afferma il Salmo: «Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, egli salva gli spiriti affranti. Il Signore riscatta la vita dei suoi servi; non sarà condannato chi in lui si rifugia».

Dio è così. Chi nella preghiera si apre a Lui nella verità del suo cuore, fosse anche l’uomo più peccatore, scopre che la sua supplica incontra l’amore di un Padre che si china su di lui; scopre la sua realtà di persona amata, qualunque sia la sua situazione di peccato. Il peccatore pentito è più caro agli occhi di Dio di colui che, sicuro di sé come il fariseo, ritiene di non aver bisogno della misericordia del Signore. Il pubblicano diventa, allora, il prototipo del vero credente, che non confida in sé e nelle proprie opere, anche buone, ma in Dio soltanto. Forse dentro ognuno di noi c’è un pubblicano che ha voglia di gridare a Dio il bisogno di essere perdonato e guarito dalle sue meschinità, ma resta nascosto e soffocato dietro la maschera della propria autosufficienza e autoconvinzione di essere persone oneste e superiori agli altri. È una grazia poter gettare via questa maschera e permettere al pubblicano, che è in noi, di rivolgere al Signore la sua invocazione sincera, umile e fiduciosa.

I due opposti atteggiamenti spirituali rappresentano due possibilità entrambe concrete per il cristiano: l’alternativa è tra l’abbandono a Dio nelle nostre debolezze e nel riconoscimento di essere bisognosi di tutto, o tra una preghiera  vuota e ipocrita che «confida in se stessa», vissuta non nella comunione con i fratelli ma nella distinzione da essi in base ad una gerarchia tutta umana di valori attraverso i quali presumere di raggiungere Dio e incoronarsi di un’ambigua quanto vuota “santità”, che è  “separazione” dagli altri, specialmente da chi giudico peggiore di me. Quante gente forse abbiamo allontanato per aver guardato più all’osservanza esteriore di regole che alle possibilità che Dio offre ad ogni uomo. Ricordiamo sempre che il modo di pensare e di agire di Dio è tutto racchiuso nella parabola del Padre misericordioso e quello deve diventare lo stile del cristiano e delle nostre comunità.

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