L’esempio di padre Pino Puglisi
La biografia del sacerdote siciliano ucciso dalla mafia narrata da Alessandro D'Avenia in "Ciò che inferno non è"
di Cristiana Mallocci
12' di lettura
18 Settembre 2023

“Che cos’è tutta questa vita scomposta dentro di me, a cui non riesco a dare un nome?” – il dirompente interrogativo che Federico, un diciassettenne sognatore ed idealista, dal cuore colmo di sogni ed inquietudini, pone ed al contempo confida al suo quaderno, in qualità di prudente e discreto custode del suo animo poetico, rappresenta l’emblematica ed esauriente sintesi di ciò che è custodito tra le intense, sapienti e dolorose pagine dell’avvincente e commovente romanzo di Alessandro D’Avenia, al quale è stato attribuito un titolo dall’inconfondibile profumo calviniano Ciò che Inferno non è. Nel romanzo viene affrontata la complessa ed appassionante sfida di narrare, proprio come gli antichi aedi, quella che lui stesso, definisce “l’epica del quotidiano” che avvolge l’affascinante e struggente biografia di Padre Pino Puglisi. Sarà proprio questo sacerdote, dalle grandi orecchie e dallo sguardo limpido, qualità che poneva al servizio degli altri, in particolare dei giovani e che lo rendevano capace di ascoltare con cura nonché di accogliere con delicata ed audace prontezza le meraviglie e le insidie che si celano in ogni istante del quotidiano, a trasmettergli il coraggio e l’audacia necessaria per dare un nome a ciò che si porta nel cuore. Egli sa bene che i giovani, spesso arroccati nei loro ostinati silenzi – robusta ed al contempo fragilissima corazza che indossano al fine di proteggere la delicata formazione della loro intimità dalla tagliente e cruda paura del giudizio – pur percependo dentro di sé un’inesauribile e traboccante sete di confidenza ed orientamento, nutrano il bisogno di riflettersi nello sguardo amorevole e paziente di qualcuno che li aiuti a far emergere le loro ferite e potenzialità, cosi da poter rispettivamente portarle alla luce, trasformandole in feritoie e dar loro compimento. Questo avveniva ogni giorno, mentre passeggiava per i corridori del Liceo Classico Vittorio Emanuele di Palermo, nel quale insegnava, con il rivoluzionario, atipico ed entusiasmante stile educativo di un docente profondamente consapevole del fatto che la più grande sfida, allora come oggi, non consistesse tanto nell’amare i ragazzi, quanto nel farli sentire amati, mediante la particolarità di gesti, parole, ed atti di predilezione che curassero, rispettassero e sopratutto facessero fiorire la bellezza della loro unicità, con la creatività e multiformità che è tipica di chi ama. Forse per questo non sostava troppo nella quotidiana staticità della Sala professori ed anzi prediligeva le esplosive e cangianti combinazioni di gioie e delusioni, sfide e paure, amori e disamori segreti e confidenze che, giorno dopo giorno, con un impeto travolgente arricchivano la scuola e i suo alunni, i quali lo avevano simpaticamente ed affettuosamente soprannominato 3P. Gli stessi alunni che ogni mattina nell’attraversare il corridoio, scorgevano la benedicente affabilità del suo sorriso, aperto e gratuito con il quale affermava e faceva maturare l’intima e solida consapevolezza che la loro vita, intensamente bella e voluta perché incondizionatamente amata, fosse un unico ed irripetibile dono per il mondo; un’ inedita ed immensa promessa, racchiusa in una scintilla, della quale loro stessi non riuscivano ancora a cogliere i segni e proprio per questo avvertivano l’inconscia ed impellente di incrociare e specchiarsi nel vigile, tenero, limpido e fiducioso sguardo di qualcuno che fosse in grado di accompagnarli e guidarli, anche e sopratutto, nei punti più ripidi e faticosi del cammino. Lo stesso sguardo affettuoso e benedicente che, come la luce che illumina l’intensa oscurità di un’opera caraveggesca, riusciva a squarciare l’infausto buio e la tetra cupezza dilaganti nel quartiere di Brancaccio, dove bambini e adolescenti erano e sono tutt’oggi vittime innocenti del sottile, invisibile e soffocante giogo della Mafia, al quale egli cercava costantemente di strapparli con la prorompente forza della sua inarrestabile mitezza. Quella che lo spingeva a credere che la nostra capacità di amare rappresenti la più sincera narrazione di quanto ci siamo sentiti amati, esattamente come la forza del nostro sentimento di appartenenza, dipende dalla misura in cui lo abbiamo colto e sperimentato. Quella stessa appartenenza che i bambini e gli adolescenti del quartiere cercano disperatamente, illudendosi di averla trovata nell’instaurazione del tirannico rapporto intriso di crudele subalternità con i cosiddetti “Padrini” termine, contenente la medesima radice di padre.

Ed è da padre che Don Pino si comporta con questi ragazzi, il cercando di mostrare loro la prospettiva di una vita degna e libera, semplicemente, ascoltandoli e guidandoli, assumendo lo stesso ruolo di Virgilio nella Divina Commedia, con profondo rispetto e sensibilità come solo un’ autentica guida, genitore o educatore che sia, è capace di fare, mostrando loro, uno squarcio di luce nell’Inferno, mediante la semplice contemplazione di un cielo stellato, a pochi chilometri da Brancaccio. Sostenuto dalla granitica certezza che non esistano ragazzi cattivi ma solo ragazzi profondamente feriti e disorientati, la cui vita è stata maledetta, ossia sottoposta ad una narrazione negativa, che li ha resi infelici, dunque non fecondi oltre che dalla profonda coscienza che nell’illiceità dei comportamenti, in realtà, si celi solo un bisogno profondo e disperato di amore assoluto, nonché un anima che nutre l’esigenza talmente profonda di essere amata ed amare da essere soffocata. Ed è proprio tale certezza che gli darà la forza, quel 15 settembre 1995, di sorridere e quindi benedire, ossia formulare una narrazione positiva, riguardo alla vita di Salvatore Grigoli, un uomo di 30 anni, padre di 3 figli, soprannominato “il cacciatore”, a causa della fredda spietatezza che lo contraddistingue, la medesima che l’ha indotto, nonostante la giovane età ad essere responsabile di 50 omicidi e che verrà salvata dalla potenza disarmante di un semplice e sincero sorriso della sua vittima, la quale effluisce delicatamente, tra le crepe del suo cuore indurito, curandone persino le ferite più profonde. Sarà la luce emanata da quello stesso sorriso ad impedirgli di conciliare il sogno e quindi a trasformare completamente la propria vita.

La vicenda di Padre Puglisi, nella sua eroica tragicità, ci insegna anzitutto che l’amore oltre a essere ciò che da compimento e senso alle nostre esistenze é anche l’unica forza capace di trasformarle integralmente e radicalmente, curando persino le più ferite più dolorose e profonde del nostro anima, ma affinché questo avvenga è necessario che l’amore non assuma la forma di un postulato ma diventi l’alfabeto fondamentale e fondante della vita quotidiana, assumendo la forma di gesti semplici e concreti. Questa concretezza è propria del mistero dell’Incarnazione, la quale ci mostra che se l’amore non viene esplicitato, mediante gesti concreti nel pieno rispetto della nostra unicità, aiutandoci a farla emergerla e ad esprimerla, non è efficace.

In una società che ci impone di essere performanti ed amabili, facendoci però scordare di essere infinitamente amati, don Puglisi ci rammenta che l’arte di amare, lungi dall’essere racchiusa in istanti di fugace e romantico eroismo, al contrario, richieda invece, una dedizione ed impegno costante e che, come ogni manifestazione artistica si imparare e si insegna ma non si improvvisa, oltre ad aiutarci a comprendere, sulle orme di quella Mater Amabilis, alla quale amava ricorrere in particolare nei momenti di maggior difficoltà, incertezza o paura, con la spontaneità innocente di un bambino che stringe la mano di sua Mamma ed alla quale si sente completamente libero di confidare, le proprie fragilità, gioie, paure e dubbi, sentendosi immediatamente, accolto, compreso e rassicurato, è da lei che impara che un amore che non sia amabile non è assolutamente capace di trasformare né cuori, ne vite.

L’amore è fecondo quando, seguendo l’esempio di Maria e Padre Pino, non alimenta dolori e ferite, ma anzi ha il potere di curare e rimarginare anche quelle più profonde. L’amore vero non colpisce e non si serve della parte più fragile dell’altro per manifestare la propria forza, ma anzi custodisce la caducità, dell’altro, consapevole del fatto che la parte più fragile rappresenta anche quella più preziosa e che l’amore autentico è quello che non solo ti accetta e ti perdona di essere come sei ma ti consente di esserlo pienamente. Proprio per questo offre la straordinaria l’opportunità di mostrare e curare le tue ferite senza alcun imbarazzo reticenza o paura di essere ferito, affinché l’altro possa prendersene cura.

L’amore autentico, dunque libero e liberante come quello di Don Pino, non suscita ma abbatte i sensi di colpa ed aiuta ad acquisire uno sguardo compassionevole nei confronti di noi stessi e degli altri oltre che ad aprirci con paziente dolcezza alla forza della speranza suscitata da un potente e tenero sguardo d’amore, sapendo che gli sguardi e le parole di coloro che ci stanno accanto sono sempre profetici nel bene e nel male, proprio come ci Insegna il poeta latino Ovidio, nelle Metamorfosi narrando la vicenda di Pigmalione, lo stesso con il quale egli riesce a salvare la vita del suo stesso carnefice, facendo del suo semplice sorriso, l’emblema più eloquente dell’amore. Quello stesso amore che tanti giovani cercano anche in situazioni, luoghi ed atteggiamenti errati nella speranza che essi possano placare anche solo per un istante, la loro implacabile sete di felicità.

In una società liquida in cui gli stessi adulti, loro malgrado, si mostrano sempre più fragili nell’adempiere pienamente alla responsabilità che il proprio ruolo comporta, il fulgido indimenticabile ed eterno esempio di Don Pino Puglisi ci ricorda che l’educazione dei giovani è un labile e prezioso dono che viene affidato agli adulti nonché alla loro capacità di ampliare la vita dei ragazzi, narrandola secondo la logica dell’amore, incarnata dal mite Sacerdote siciliano oppure diminuirla, narrandola secondo una logica distruttiva nonché permeata di sterile autoritarismo, la medesima presente nella crudeltà lacerante della frase “siete troppi, vi ridurremo”, con la quale un professore ha esordito, entrando in classe, il primo giorno di liceo ed il cui eco è risuonato nei loro cuori pulsanti e pieni di vita come un infausto presagio, annichilendo irrimediabilmente gli sguardi, le vite e i destini che gli erano stati affidati.

Questo ci fa comprendere quanto affinché i giovani siano fecondi, cioè felici sia necessario applicare una strategia educativa che, possa quindi, facendo riferimento alla straordinaria e suggestiva concretezza dell’etimologia latina del termine: “tirar fuori”, dunque aiutarli ad esprimere il massimo delle loro potenzialità. Quest’ultima però non potrà mai essere autentica ed efficace, se anzitutto, non sarà fondata su valori imprescindibili quali: amorevolezza, confidenza e delicatezza – purtroppo sempre più assenti nella società odierna ma essenziali al fine di poter istaurare un dialogo solido, aperto, libero e liberante, approccio educativo sempre meno presente nella moderna società liquida, fondata sull’apparire e non sull’essere, come mostra e dimostra lo stesso autore, il quale afferma con coraggiosa audacia che si parli troppo dei giovani, ma troppo poco con i giovani.

È necessario ed urgente inoltre, riprendere a benedire la giovinezza, ossia dare di quest’ultima una narrazione realistica, positiva e propositiva, non dimenticando che lo stesso atto creatore di Dio, non può prescindere da una parole ed uno sguardo benedicente sul mondo, ciò significa che gli adulti non possono avere l’assurda ed ostinata pretesa di crescere giovani, forti e sopratutto felici, se loro per primi non si assumo la responsabilità di infondere tale sguardo nella giovinezza dei loro figli.

Infine, in una società come la nostra lacerata dal cieco ed imperante oblio del consumismo, penso sia necessario tornare alla limpida semplicità delle relazioni umane, facendo memoria del fatto che per essere felici abbiamo sempre bisogno di Qualcuno, non di qualcosa. Infine è utile, in tale contesto, ricordare, dunque portare nel cuore, come la sintesi ed al contempo risposta, all’ eterna sfida educativa, la quale oggi si impone con sempre maggior forza: “Non basta amare i giovani, è necessario che loro si accorgano di essere amati”, solo così infatti, si potrà procedere alla costruzione di una società realmente nuova e feconda, perché ricca di giovani consapevoli di essere infinitamente amati, dunque infinitamente felici”.

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