Battore Carzedda, martire in tutte le lingue del mondo
Il ricordo a cinquant’anni dall’ordinazione sacerdotale e a 19 dalla morte
di Natalino Piras
Battore Carzedda, Gianni Bitti, Luzianu Pala, don Marredda a S’Annossata
6' di lettura
23 Maggio 2021

Memorabile, de ponner galu oje su pilu rizzu, di immensa struggenza, s’attitu che la madre Tonnedda ’e Broccale intonò per il figlio Battore Carzedda riportato a Bitti dove era nato il 20 dicembre 1943, da Zamboanga, parte occidentale dell’isola di Mindanao, nelle Filippine. Là il 20 maggio del 1992, Battore era stato ucciso in un’imboscata tesa dagli integralisti islamici. Così si elevava il canto di Antonia Cossellu: « Dae sa terra antzena/ M’ar ghiratu, Battore,/De gloria una parma./Dae sa terra antzena/Dolore e pena manna/M’ar ghiratu Battore/Pena manna e dolore/De gloria una parma/Dolore e pena manna ». Come una ribaltata eco del canto augurale che sempre la madre dedicò al figlio quando fu ordinato sacerdote nel 1971, a sa sacra cui il 16 luglio di quell’anno partecipò l’intero paese.

Uomo del dialogo

Salvatore Carzedda, Battore per quanti lo abbiamo conosciuto, il nome con cui firmava le sue lettere a una moltitudine di corrispondenti, missionario del Pime, aveva 48 anni quando lo uccisero. Mandato alle Filippine nel 1977, Battore era uomo del dialogo specie tra cristiani e musulmani, persona di forte carisma, fondatore insieme al confratello padre Sebastiano D’Ambra del movimento “Silsilah”, parola araba che significa catena, per il dialogo tra cristiani e musulmani. Scrive Giorgio Bernadelli che «padre Salvatore Carzedda aveva studiato a fondo i testi musulmani su Gesù, indicando in un libro alcune strade per un incontro reciproco». Il libro, centocinquanta pagine, è scritto in inglese. «Era successo negli anni tra 1986 e il 1989, quando i superiori lo avevano chiamato a svolgere un servizio per I’istituto nel seminario del Pime negli Stati Uniti.

A Chicago Carzedda si iscrisse alla facoltà di Missiologia della Catholic Theological Union, oltre a frequentare dei corsi anche presso la Lutheran School of Theology. Ne nacque una tesi di dottorato intitolata The Quranic Jesus in the Light of the Gospel. Exploring a Way to Diaologue ( Il Gesù del Corano alla luce del Vangelo. Alla ricerca di una via per il dialogo) che fu proprio il Silsilah a pubblicare in un libro, quando nel 1990 padre Carzedda rientrò nelle Filippine». Sostiene Battore che «i musulmani sul Nuovo Testamento e i cristiani sul Corano dovrebbero cominciare a fare i conti con una nuova comprensione di quanto i Libri Sacri rappresentano. Entrambi sbaglierebbero ad abbandonare la sfida del dialogo e l’esperienza dell’incontro a causa delle incongruenze tra le due fedi.

Il mio tentativo è invece quello di facilitare una nuova comprensione e un nuovo ascolto reciproco, senza livellare le differenze tra le tradizioni religiose. E a guidarmi è la convinzione che il dialogo con l’Islam è possibile e necessario per porre fine alle dolorose incomprensioni che vanno avanti da secoli». Sfida e dialogo che Battore affrontava quotidianamente con un sorriso aperto.

Martire non per caso

«Di padre Salvatore Carzedda ho un solo ricordo, luminoso, gioioso». Così inizia la prefazione di padre Piero Gheddo, direttore dell’ufficio storico del Pime, a un altro libro, Testimone del dialogo, pubblicato nel 2002 dalla Emi di Bologna. Opera interamente dedicata a Battore. L’introduzione è ancora di Sebastiano D’Ambra. Seguono «un’affettuosa biografia di Lucia Carzedda», sorella di Battore, e poi l’epistolario e il lascito spirituale di una persona che, sostiene Gheddo, «non è martire per caso». Nonostante «la totale consapevolezza dei pericoli cui andava incontro, padre Carzedda decise con tutto se stesso di portare avanti il dialogo, causa del suo assassinio». Il sorriso di Battore continuava a restare aperto, sia che parlasse sia che cantasse. «Salvatore was playfully called “Mouth of Gold” because his voice was clear and strong», dice una testimonianza. «Era scherzosamente chiamato “Bocca di Dio” perché la sua voce era chiara e forte».

Nella missione di Zamboanga «Não», nessuno, «há energia elétrica nem telefone. O correio chega uma vez por semana. O momento é crítico e tenso. A guerrilha muçulmana luta pela independência de Mindanao». C’è una fotografia che ritrae Battore e Sebastiano D’Ambra con l’allora presidente delle Filippine Cory Aquino, il giorno, 24 settembre 1990, che al movimento “Silsilah” venne consegnato il premio per la pace. Battore era un uomo pieno di entusiasmo, un organizzatore. Credeva in quello che faceva. «Aveva l’orgoglio dei sardi e l’umiltà dei santi». Un’altra voce: «Le P. Carzedda était, depuis une dizaine d’années, curé de Siocon, dans le diocèse de Zamboanga del Norte. Il avait pris une part très active à la fondation et au développement des petites communautés de base dans sa paroisse. Il se mettait aussi au service des musulmans et des aborigènes qui peuplent cette région».

La morte e il ritorno

La sera del 20 maggio 1992, l’auto guidata da Battore si schiantò contro un palo della luce. La macchina non poteva essere più governata. Due motociclisti si erano accostati e avevano fatto fuoco. Battore rimase ucciso sul colpo.Lo riportarono a Bitti, il 20 giugno del 1992, chiuso dentro una bara con il coperchio di vetro, vestito dei paramenti sacerdotali, il rosso del martirio. Mi ha ricordato, quando mi sono chinato per salutarlo, monsignor Oscar Arnulfo Romero ucciso dai sicari dei gorilla al potere, mentre diceva messa sull’altare della cattedrale di San Salvador, il 24 marzo del 1980. A Zamboanga, prima della partenza, Battore fu onorato anche dai musulmani, quelli nella sua stessa idea di pace, preludio alla folla immensa che a Bitti lo accompagnò nel camposanto dove riposa, nella tomba di famiglia insieme al padre Antoneddu ’e Mesumunnu e a tzia Tonnedda ’e Broccale. Come un pianto di speranza risuona la chiusura de s’attitu della madre: « E a sas Filippinas/Precabi pake e calma/E sar Filippinas/Annabi che a prima/Precabi pake e calma/che a prima bi anna ».

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