Ma davvero in Sardegna c’è un sistema democratico?
di Francesco Mariani

7 Marzo 2024

4' di lettura

La legge elettorale sarda è una porcheria, senza per questo offendere i porci. Venne approvata con un colpo di mano bipartisan nell’autunno del 2013, tre mesi prima di andare alle urne. Fece la sua prima prova sul campo alle elezioni del 2014, vinte dal centro sinistra guidato da Francesco Pigliaru. Sin da allora sono emerse contraddizioni ed inconcludenze che però finora i maggiori schieramenti si sono guardati bene dal risolvere. Fanno comodo a loro.

Il sistema elettorale sardo cucina nella stessa pentola pasta e riso: è un misto di proporzionale condito col maggioritario. Venne concepito per scoraggiare la nascita di un terzo polo alternativo ai due tradizionali: centro destra e centro sinistra. Mette malamente insieme due opposti: la corrispondenza della composizione del consiglio regionale con il voto dei cittadini; dall’altro la necessità di garantire a chi vince una maggioranza solida. Gli elettori hanno a disposizione due voti: uno per il candidato presidente e uno per i partiti e i candidati consiglieri. La vittoria va al candidato Presidente che ha ottenuto più voti, indipendentemente da quanti ne abbiano preso le sue liste. Personalmente, lo dico per chiarezza, sono stato sempre contrario al voto disgiunto sul Presidente, ritenendolo un mercato delle vacche.  

Nonostante il 25 febbraio il centro sinistra abbia preso meno voti del centro destra avrà in dote il 60% dei seggi del consiglio regionale: 36 su 60. Una palese divaricazione tra il voto popolare e la rappresentanza politica in Regione. Candidati ultra votati restano fuori mentre altri entrano in consiglio con consensi irrisori.

Per scoraggiare l’incomodo di eventuali terzi o quarti poli, ci sono poi due altri meccanismi non certo democratici. Solo i due candidati presidenti più votati entrano in consiglio regionale (a differenza di quanto accade, per esempio, nelle elezioni comunali con i sindaci).

E poi ci sono le soglie di sbarramento: il 5% per i partiti che si presentano in solitaria e il 10% per le coalizioni. Chi resta al di sotto non entra in consiglio regionale. In solitaria, solo i 5 Stelle, nel 2019, hanno sperato tale soglia. Per quanto riguarda le coalizioni ci sono due esempi eclatanti: Michela Murgia prese 75mila voti personali e la coalizione Sardegna possibile, che la sosteneva, 45mila: tutti restarono fuori. Stessa sorte è capitata ora a Renato Soru e alla sua Coalizione sarda. Meccanismi che magari garantiscono la governabilità ma non certo la democrazia.

A tutto questo si aggiunga il calcolo del quoziente che misura quanto vale, in termini di voti, ogni seggio del consiglio regionale. Qui c’è da sbizzarrirsi. Non a caso la proclamazione dei consiglieri avviene almeno un mese dopo le elezioni. Ne ha voglia Alessandra Todde, cui vanno i migliori auguri di un fruttuoso servizio per i sardi da parte de L’Ortobene, di dire “subito al lavoro!” Bello ma impossibile. Tra ricorsi e contro ricorsi si arriva anche a tre anni prima che si stabilisca se un consigliere debba restare al suo posto o cedere lo scranno ad un altro. Di mezzo ci sono i calcoli sui resti che penalizzano o promuovono partiti, candidati e territori. E ci sono poi annesse le transumanze invereconde tra un partito e l’altro.    

La morale della favata è che la somma dei voti non coincide con l’elezione. Abbiamo rivoluzionato la regola imparata alle elementari: cambiando l’ordine degli addendi la somma non cambia. Qui invece politicamente e algebricamente cambia. L’esatto opposto di una democrazia degna di questo nome. Todde o non Todde, nel passato come nel presente.

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