Antonio Benini, ritratto di fantasia di Eleonora d'Arborea (diciannovesimo secolo)
La politica senza la storia locale è come una passerella di moda
di Francesco Mariani

28 Febbraio 2024

4' di lettura

Riflettevo, nei giorni di campagna elettorale, sul fatto che gran parte delle persone che oggi crescono solo con i mezzi di comunicazione di massa (radio, tv, messaggi pubblicitari e “social”) non sono più richiamate, tra l’altro, al senso e all’importanza della storia come strumento indispensabile per vivere il presente. E quindi partecipare ad una competizione politica che vada oltre l’orizzonte dei personalismi, dei rapporti tribali e degli schemi triti e ritriti.

Non riescono a collegare con la loro vita non solo la storia che hanno studiato a scuola – in un sistema scolastico statale centralizzato come il nostro — ma anche quella del luogo ove si vive. Di quest’ultima poco o nulla si conosce. Faccio un esempio: buona parte dei giovani sardi non sa chi fosse Eleonora D’Arborea o Giovanni Battista Tuveri, cosa fosse il Regno di Sardegna o il regime feudale. Conoscono bene le ultime canzonette di San Remo ma non i versi dei grandi poeti sardi. 

Nelle scuole italiane si insegna essenzialmente la storia politica e militare, funzionale a quella che è chiamata l’Unità dell’Italia e non, come è stata in realtà, una colonizzazione sabauda. Alle elementari mi hanno fatto leggere il libro “Da Quarto al Volturno” per inculcarmi la gratitudine, che non ho, verso Giuseppe Garibaldi. Dalle memorie familiari, tramandate di generazione in generazione, ho appreso altro sulla prima e seconda Guerra Mondiale. A questa “scuola impropria” ho appreso la storia di personaggi noti e meno noti e di luoghi e geografie. Storie di miniere, di cave e caverne, di nuraghi, ovili e boschi. Oggi però nelle scuole la conoscenza della storia è declassata a materia “inutile” e mancano anche quelle lezioni “improprie”, generazionali, che aiutavano a mettere i piedi per terra sul chi siamo e cosa vogliamo. 

In campagna elettorale abbiamo assistito alle passarelle di tutti i big nazionali che ci hanno illustrato i problemi e i rimedi della Sardegna in chiave continentale, con le lenti de chie benit dae su mare. Senza l’aggancio alla storia del luogo e della regione ove si vive manca anche la concretezza della dimensione politica. Non a caso una delle big ha esordito dicendo: “Mi hanno detto che…” Confessione involontaria di chi non sa nulla della Sardegna ma vorrebbe volgarizzarla ai sardi. Ci vengono a parlare di Europa in una regione che ha improbabili possibilità di esprimere un suo rappresentante a Bruxelles. 

Per capire dove si è, e decidere dove si va, è indispensabile comprendere da dove si viene. Dunque la storia non serve soltanto per diventare più “saputi”. Serve, in particolare, per saper “leggere” e interpretare la realtà e le circostanze. Essa è maestra di vita non una semplice raccolta di fatti, date, nomi e battaglie. È come ruminare un cibo necessario per vivere. La prima identità prende forma nel luogo natio, nelle sue coordinate spazio-temporali. Essa è come il gabbano d’orbace che ho ereditato da mio padre. Lo curo e l’ho anche rammendato, forse è diventato più bello. Altra cosa sarebbe stato il buttarlo.

Ecco il punto: noi non conosciamo o ci vergogniamo della nostra identità. Ci mettiamo addosso altri abiti per apparire quello che non siamo. Senza la memoria della nostra storia, non esiste un popolo, la politica diviene semplicemente brama di potere e disponibilità a vendersi all’ultimo arrivato. E gli appuntamenti elettorali si riducono a passerelle di moda: c’è un premiato ma alla maggior parte della “gente-gente” (per dirla in linguaggio allora di sinistra) non interessa un granché.

Condividi
Titolo del podcast in esecuzione
-:--
-:--