La pistola del sicario non uccise Wojtyla testimone di libertà
di Francesco Mariani

13 Maggio 2021

4' di lettura

A distanza di 40 anni sembra di sentire ancora adesso lo scandire, in rapida successione, dei colpi di pistola indirizzati verso Giovanni Paolo II, oggi santo. Sono le 17.17 del 13 maggio 1981, festa della Madonna di Fatima, in piazza San Pietro. Karol Wojtyla viene raggiunto dalle pallottole sparate dal sicario turco Ali Agca. Costui, come i killer di professione, aveva mirato bene ed era sicuro di aver assolto al compito affidatogli: eliminare il nemico. Non aveva messo in conto l’intercessione di Maria che ottenne la deviazione della traiettoria del colpo finale mirato al cuore e finito sull’anello papale. Wojtyla, stramazzato sulla “papamobile” rimase a lottare tra la vita e la morte, portato subito sul tavolo operatorio del Gemelli, salvato da un miracolo e dall’esperienza del chirurgo Francesco Crucitti che a quell’ora doveva essere da ben altra parte. Quel giorno è iniziato il Calvario sanitario e spirituale del Pontefice. Lui che aveva un fisico atletico, forgiato dalle fatiche, resistente ad ogni sfida, dovette tornare più e più volte in ospedale per le conseguenze derivate in gran parte proprio dai colpi esplosi da Agca. Si susseguirono tante inchieste e processi. Si sono sentite le dichiarazioni surreali e deliranti del sicario (perdonato senza condizioni da un Wojtyla andato a trovarlo in carcere). Visto il cadere, di volta in volta, della pista del terrorismo turco, dei servizi segreti bulgari ed americani. Non si è riusciti a dare un nome ai mandanti dell’affidata esecuzione di morte e dunque anche sul perché. Su questo secondo punto, però una logica si intravvede. Wojtyla aveva vissuto sulla sua pelle sia il nazismo tedesco che il comunismo sovietico (al cui crollo contribuì in maniera decisiva). Si era scontrato apertamente contro l’America di Bush e le regole del mercato globalizzato. Aveva rifondato le categorie sociologiche del lavoro: non più “merce”,“capitale variabile” ma “amore rivelato”. Non si è liberi comunque se trasformati in pedine di una economia di Stato o di una Multinazionale. Prima di tutto viene la dignità della persona e la sua libertà. Ed è proprio questo che i veri poteri di questo mondo non possono accettare, ieri come oggi. L’oggi santo Karol non suscitò polemiche sul futile, l’inutile e d’intorni. Non inseguì i consensi del pensiero unico e gli applausi del politicamente corretto, della mentalità e degli interessi del potere vero (quella con la P maiuscola) che lusinga, persuade come il ruffiano, e poi ti deruba. Anzi ti fa sentire come un rivoluzionario seppure, in fondo, sei un bullone più o meno importante di un ingranaggio al quale vieni chiamato ad obbedire. Non aveva paura, ed invitava a non averne, di aprire le porte alla sfida del vero. Tanto da promuovere sfide epiche (ricordate l’istruzione “ donum vitae sulla vita nascente” o la Laborem exercens o la guerra in Iraq?) invise a chi il potere vero lo maneggia e rimpiange quel 13 maggio come un’occasione mancata. Wojtyla aveva l’amore del popolo in carne ed ossa, non platinato o passato al photoshop. Ed aveva l’odio di quanti non sanno condividere i beni umani e quelli celesti. Era un irriducibile testimone cristiano, e dunque universale, di libertà. Memorabile, a tal proposito, il suo discorso alla cinquantesima assemblea generale dell’Onu: «Alle soglie di un nuovo millennio siamo testimoni di una straordinaria e globale accelerazione di quella ricerca di libertà che è una delle grandi dinamiche della storia dell’uomo. Questo fenomeno non è limitato ad una singola parte del mondo, né è l’espressione di una sola cultura. Al contrario, in ogni angolo della terra uomini e donne, pur minacciati dalla violenza, hanno affrontato il rischio della libertà, chiedendo che fosse loro riconosciuto uno spazio nella vita sociale, politica ed economica a misura della loro dignità di persone libere». © riproduzione riservata

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