“Il giorno dopo”, una gioia da comunicare
di Francesco Mariani

30 Aprile 2021

4' di lettura

In attesa del Giorno dopo era il titolo dell’editoriale del numero pasquale scritto dal vescovo Antonello. Un invito alla speranza, a portare, noi persone fragili, la notizia dell’esperienza pasquale. Il giorno dopo il sabato, sono i nostri giorni, il nostro vivere e comunicare, mendicare ed operare. Non esiste una cosa bella e significativa nella nostra vita senza il desiderio di comunicarla al mondo intero. L’intima natura della gioia è nella condivisione. Senza di essa vi è semplicemente la solitudine aggravata dalla miseria umana. Resta appunto la miseria e scompare la misericordia, unico vaccino per risollevarci dalle nostre cadute. Andrea non c’è l’ha fatta a trattenersi dal dire al fratello Pietro «abbiamo trovato il Messia». Era stato con lui tutta la notte e al mattino lo voleva gridare a tutti i pescatori presenti sulle barche e sulla riva del lago di Galilea. La Samaritana è rientrata in paese dicendo a tutti che al pozzo di Sicar c’era un uomo il quale sapeva tutto di lei, più di lei stessa, e parlava come nessun altro al mondo. Non le importava più nulla degli sguardi ostili della gente, voleva che tutti sapessero. Paolo si strugge dal desiderio di girare il mondo intero per annunciare ovunque che lui aveva visto e parlato con Gesù risorto. Nessun viaggio, fatica, ostacolo riusciva a distoglierlo dal ripetere a tutti che neanche la morte poteva più separarlo da quell’abbraccio potente e definitivo sperimentato sulla via di Damasco. Francesco Saverio aveva lasciato una carriera promettente, un successo sociale già assicurato, per andare in India e contagiare chi incontrava con quell’amicizia nata da Ignazio di Loyola. E vedendo la miseria morale e le usanze crudeli di quel mondo non si ergeva a giudice, anzi simeravigliava non facessero di peggio. Sulla propria pelle aveva sperimentato infatti chesenza Gesù non esiste un limite al peggio. Padre Manzella, lombardo di nascita, girò la Sardegna intera per testimoniare, con l’apostolo Tommaso, il «mio Signore e mio Dio». Venne ricordato così: «Nessuno amò come lui la Sardegna, e ne fu riamato di inesprimibileamore. Amò le anime, s’intende, redente dal prezioso Sangue. Ma anche la terra, il cielo, il mare, i monti aspri e selvaggi, come le valli profonde e le brughiere interminabili, il costume, il vitto, l’alloggio, tutto!». La fede cristiana è giunta a noi di generazione in generazione, grazie a persone che sono andate nel mondo «come stranieri e pellegrini, nulla portando se non Cristo Crocifisso nel loro cuore». La fede è acqua limpida e zampillante, se la argini, se la rinchiudi, diventa palude inutile o meglio dannosa. Ci è data per comunicarla. Una fede che non diventa missione non è pienamente vissuta o interamente capita. Sempre la cartina tornasole della nostra maturità cristiana è nel respiro missionario, nella cattolicità del credo. Le comunità tutte assorbite in una sorta di auto-occupazione, avvitate nelle proprie attività di sussistenza, sono destinate a morire di asfissia. Manca il respiro. Il giorno dopo è il compito di ogni battezzato, un amore vero per l’uomo. Perché se condividiamo le cose del cielo tanto più sapremo mettere in comune le cose della terra. In questo senso la gioia pasquale è servizio spirituale ed opera civilizzatrice. È preghiera e carità. La nostra Diocesi ha tanti figli sparsi nel mondo per portare Cristo. Un dono e un’avventura che in gran parte vede protagonisti uomini e donne consacrate. Annunciatori del vangelo dobbiamo però diventare tutti: genitori, lavoratori e disoccupati, sani e malati, studenti universitari, imprenditori, tutti coloro che per un motivo o un altro viaggiano tra popoli e terre lontane. Sarebbe triste per chi dice di amarlo lasciare Gesù a casa e non accettarlo come compagno quotidiano di viaggio. © riproduzione riservata L’immagine: Eugène Burnand, I discepoli Pietro e Giovanni corrono al sepolcro la mattina della Resurrezione (1898)  

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