Theodor W. Adorno e io, una grande simpatia
di Francesco Mariani

9 Agosto 2023

4' di lettura

L’anniversario della morte di Theodor W. Adorno (6 agosto 1969), figura di spicco della Scuola di Francoforte, merita, da parte mia, un ricordo particolare. Sin dagli anni del liceo classico sono stato un accanito lettore dei testi di Marcuse, Fromm, Pollok, Benjamin ecc. Ma di tutti questi grandi intellettuali francofortesi quello che mi resta fisso nella mente, perché ha scombussolato le mie coordinate culturali, è il testo Dialettica dell’illuminismo (scritto da Adorno con Max Horkheimer nel 1947), stagione non certo casuale. Mi ripeto spesso l’incipit del libro e l’ho inculcato in generazioni di miei studenti di sociologia: “L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”.

Adorno ed Hokheimer identificano con il termine illuminismo una tendenza del pensiero occidentale che ha concepito il rapporto tra uomo e natura in termini di dominio, dando vita ad una ragione strumentale, meccanicista, buona per tutti gli usi. La scienza che diventa “buona” nel reparto di un ospedale ma anche in una guerra, in una distruzione di massa. Slegata da un criterio etico. Ma l’uomo non è un’idea: è un misto di ragione e natura, di istinti, desideri e domande da cui è costituito. Direbbe don Giussani: ha nell’intimo il senso religioso, dell’infinito. Il “borghese” (per dirla nella terminologia marxista) ha dimenticato tutto questo e sceglie di tacitare, drogare, la sua coscienza, il suo vero io. Però: “Né pentere e volere insieme puossi, per la contradizion che nol consente” (non ci si può pentire e al contempo voler commettere il peccato per il quale ci si sta pentendo), dice Belzebù a San Francesco (Dante, Inferno, Canto XXVII).

Adorno e Horkheimer descrivono cosa vuol dire questa dialettica: la tecnica abilita al dominio sulla natura, ma l’uomo è egli stesso natura, e il “tutto è possibile all’uomo” si trasforma in “tutto è possibile sull’uomo”. 

A tutti voi queste considerazioni apparranno datate ed incomprensibili. Per me no. Come sono andate le cose, lo sappiamo. Walter Benjamin diceva che è “solo a favore dei disperati che ci è data la speranza”. I disperati aspettano ancora, espropriati dall’essere figli di Dio, una proposta per riprendere a sperare. 

Vi propongo alcune massine di T.W. Adorno tratte dal suo libro Minima Moralia dove si può trovare una lucida analisi del significato del dono, anche a casa nostra.

  • La felicità è come la verità: non la si ha, ci si è. Per questo nessuno che sia felice può sapere di esserlo. Per vedere la felicità, ne dovrebbe uscire. 
  • L’unico rapporto fra coscienza e felicità è la gratitudine.
  • La decadenza del dono si specchia nella penosa invenzione degli articoli da regalo, che presuppongono già che non si sappia che cosa regalare, perché, in realtà, non si ha nessuna voglia di farlo.
  • L’amore è la capacità di avvertire il simile nel dissimile.
  • L’umano è nell’imitazione: un uomo diventa uomo solo imitando altri uomini.
  • Non c’è correzione, per quanto marginale o insignificante, che non valga la pena di effettuare. Di cento correzioni, ognuna può sembrare meschina e pedante; insieme, possono determinare un nuovo livello del testo.
  • C’è un criterio quasi infallibile per stabilire se un uomo ti è veramente amico: il modo in cui riporta giudizi ostili o scortesi sulla tua persona.
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