Sul fine vita partire sempre dai dati di realtà
di Redazione

17 Agosto 2022

8' di lettura

Una legge ferma in Parlamento e un dibattito che negli anni si è fatto sempre più duro e ideologico, basti pensare alla recente raccolta firme per il referendum sull’eutanasia legale, quesito poi ritenuto inammissibile dalla Corte costituzionale. Di questi temi abbiamo parlato con il professor Antonio Puca, sacerdote Camilliano, già professore Ordinario di Bioetica.

Facciamo il punto sulla Legge sul fine vita, qual è lo stato dell’arte?
«Da quello che io conosco, in Parlamento c’è sempre stata questa proposta: fine vita legato a idratazione e alimentazione dei terminali. Oggi invece si parla di fine vita come anticamera del suicidio assistito. La legge è ferma non perché è caduto il governo ma perché già in precedenza c’erano state resistenze molto forti. La questione è sapere se c’è una linea netta di demarcazione tra l’eutanasia e l’accanimento terapeutico. Problema secondo me molto vago perché a partire dal 1957, almeno per quanto riguarda la posizione della Chiesa, Pio XII parlando agli anestesisti li invitava al realismo: dare tutte le cure necessarie ma non arrivare all’accanimento terapeutico.
Dall’altra parte si confonde quello che è l’anticamera dell’eutanasia con l’accanimento terapeutico e questo non è ciò che una sana bioetica, anche laica, contempla. La legge italiana è successiva a molti tentativi fatti dopo i casi Welby ed Englaro fino al punto che siamo alle soglie dell’approvazione perché c’è una maggioranza in Parlamento favorevole a questo disegno di legge. Oggi tutto è sospeso in attesa del nuovo Parlamento».

Può precisare la distinzione tra accanimento ed eutanasia?
«Penso sia legittimo distinguere a patto che non si parta ideologicamente ma dalla realtà. Innanzitutto bisogna dire che il problema non va spostato, come è stato fatto seguendo Usa e Inghilterra, al livello del Parlamento o giudiziario ma deve essere all’interno dell’orizzonte dell’etica medica, cioè del rapporto medico-paziente o al massimo con la famiglia del paziente. Spostando la questione a livello giuridico si perdono i parametri. Dare al giudice l’incarico di decidere cosa sia l’accanimento o cosa l’eutanasia mi pare fuori luogo. Il medico sa perfettamente che può fino a un certo punto. Se le cure anche intensive non producono effetto, sono un aggravio anche per l’ammalato è inutile insistere.
La posizione della Chiesa è chiara da tempo. L’eutanasia è un intervento diretto o indiretto (attiva o omissiva) che provoca la morte. C’è il problema della sedazione profonda sulla quale ho alcuni dubbi: se significa che allevia il dolore del paziente ci siamo ma già Pio XII invitava anche i pastori e i medici di non togliere la coscienza all’interessato. L’ammalato ha sempre diritto ad avere la coscienza sia per quanto riguarda la dignità della persona e sia per quanto riguarda aspetti giuridici, ad esempio testamento o volontà ultime».

Dignità è una parola usata come grimaldello, ma fino a che punto la vita è degna di essere vissuta?
«La parola dignità è diventata equivoca, con più significati. Per noi significa rispetto del paziente fino alla fine, per gli altri la qualità della vita. Siamo di fronte all’interpretazione su quale vita è degna di esser vissuta. Se si parla dal punto di vista ideologico anche i termini sono equivoci, ognuno ne parla con il concetto che ha in testa, a quel punto è molto difficile trovare un’intesa, invece bisogna sempre partire dal dato, dalla realtà. Non ho mai anteposto la questione dell’etica a quella ontologica. Se ad esempio il concepito non è trattato come essere vivente, si può fare sull’embrione qualsiasi sperimentazione».

Esempio pratico, se uno non ha funzioni autonome e vive attaccato a un respiratore?
«C’è una verifica che anche dentro lo studio sulla morte cerebrale è possibile prevedere e la legge italiana lo prevede. Quando la respirazione non è più autonoma, il ventilatore è di sostegno al paziente, se si stacca per pochi istanti e si vede che l’ammalato respira ancora è chiaro che è un sostegno, se l’ammalato cessa di respirare il ventilatore non serve più. Il cuore pulsa, è un muscolo che va avanti perché c’è una ventilazione forzata, bisogna vedere i parametri cardiaci, polmonari e quelli della morte cerebrale. L’unico punto su cui starei attento è che si utilizzino tutti gli strumenti, per esempio il flusso sanguigno al cervello.

La voce della Chiesa è minoritaria e silenziata su questi temi.
«È vero, ma non bisogna avere timore di essere in minoranza. La Chiesa fondata da Gesù è sempre stata minoritaria. Occorre ripartire da capo diceva Giussani già cinquant’anni fa, pochi lo hanno ascoltato. Se il Papa dice che bisogna andare fuori, nelle periferie, lo dice perché conosce la realtà».

Questi argomenti, anche nella formazione medica e sanitaria, sono diventati secondari.
«Io ho avuto la fortuna di insegnare all’università. Nel curriculum dei medici c’è la medicina legale. Resta l’equivoco perché i medici legali non vogliono mollare la presa, ma la bioetica abbraccia un arco molto più largo che non il biodiritto. Però anche le cattedre di Bioetica che sono nate in Italia sono di stampo positivista, statunitense. A quel punto metterne una in più o in meno non fa differenza. Bisogna ripartire dalla questione fondamentale della dignità della persona, allora anche l’operatore sanitario, medico o infermiere, dà testimonianza di qualcuno che comincia a vivere una posizione umana nei confronti del paziente. Ma certe cose non si possono insegnare». 


Di fronte alla sofferenza dei più piccoli

Dopo i casi di Charlie Gard e Alfie Evans padre Puca si è chiesto se fossimo di fronte alla fine dell’etica medica, a partire dal concetto che abbiamo trattato nell’intervista in questa pagina, il confine tra rispetto della vita e accanimento. L’altra osservazione del religioso riguardava il rapporto medico-paziente, in questo caso medico-genitori, domandandosi: «Della sorte del bambino chi decide: i medici, i genitori, il tribunale? Se la questione legale è ruotata intorno a quello che viene definito l’interesse del bambino, ci chiediamo qual è veramente. È quello che stabiliscono i medici, quello che viene difeso dai genitori, quello deciso dai giudici? Dove è il rispetto della volontà del paziente e/o dei genitori dei piccoli? Non sembri esagerato affermare che talvolta sembriamo non più pazienti da curare, ma soggetti privati della libertà e prigionieri di una struttura. In particolare chi ha esperienza, diretta o indiretta, delle terapie intensive lo può testificare».

Allora – prosegue il ragionamento – «se gli ospedali, come sembra, non offrono più queste garanzie fondamentali per la persona, non conviene tornare all’antico? Da noi – scrive Puca – è ancora viva l’assistenza domiciliare, prevista anche dalla legge civile e oggi maggiormente incoraggiata, è il caso di incentivare questa scelta. Occorre dunque assistere i pazienti acuti in strutture idonee, inviare gli altri a casa o, per chi necessità, negli Hospices, purché questi non diventino luoghi dove sia legittimato solo staccare la spina». Il rispetto per la dignità umana va di pari passo con la compassione e l’umanizzazione degli ospedali, ma per questo – osserva il religioso – occorre recuperare l’anima cristiana, occorre rivivere la passione di Cristo per l’uomo». Infine padre Puca lancia l’allarme contro gli eccessi della tecnologia: «Vale non solo per l’ecosistema, di cui giustamente ha preso le difese anche papa Francesco, ma per l’uomo stesso, la sua origine e il suo destino. Neppure una antropologia centrata su di sé è sufficiente. Bisogna andare alla radice del problema; occorre recuperare il senso del mistero. Occorre una nuova visione antropologica, aperta al mistero. Ci pare di poter dire, a conclusione, che di fronte a episodi come quelli di Charlie Gard e di Alfie Evans occorre chinare il capo e invocare una mano che ci salvi. Ci vuole ancora una volta la carezza del Nazareno. Il resto è una conseguenza».

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