Relazioni, la persona fa la differenza
di Luca Mele

31 Gennaio 2022

4' di lettura

Abreve saranno pronti i nuovi siti web della diocesi di Nuoro e del settimanale L’Ortobene. Abbiamo parlato con Luigi Rancilio – giornalista di Avvenire e responsabile della comunicazione social all’interno della redazione internet nello stesso quotidiano della Cei – a proposito di evangelizzazione e nuovi strumenti digitali. Quanto i canali digitali appartengono alla Chiesa? «I canali digitali sono spazi e come tali abitabili anche dalla Chiesa. Ciò che a volte ci sfugge è che ogni “canale” ha le sue regole, i suoi linguaggi, il suo stile. Mentre noi tendiamo a replicare su tutti lo stesso modello che usiamo nei nostri spazi analogici col risultato di essere quasi sempre ininfluenti e marginali».  Web e piattaforme possono definirsi un pulpito da dove annunciare il Vangelo? E con quali linguaggi? «La prima cosa che dobbiamo imparare è che nella comunicazione di oggi non esistono più pulpiti ma persone che comunicano allo stesso livello. Detto questo, io credo che il Vangelo si possa annunciare ovunque. La domanda che dobbiamo farci è se siamo capaci di farlo in certi ambiti. Per esempio, su TikTok (il social che piace ai ragazzi) vedo religiosi fare letteralmente le capriole in video per cercare di comunicare con i ragazzi. Una scelta che può anche funzionare a patto che chi la fa non finisca per apparire fuori contesto. Non rispetto al luogo digitale ma al proprio ruolo». Quali sono le risorse di una comunicazione on line e quali i rischi? Qual è il rapporto tra il contatto umano, diretto e la missione digitale? «Comincio col dire che non esiste altro mezzo che ci permette di raggiungere tante persone come il digitale. Basti pensare che, nonostante una certa stanchezza, siamo on line mediamente per sei ore al giorno e il 76,6% degli italiani (fonte Censis) è presente sui social. Se pensiamo alle nostre giornate, non c’è più una divisione così netta tra ciò che facciamo nella vita che definiamo reale e in quella digitale. Tutto si mischia. Non siamo più “on line” o “off line” ma “on life”. Le relazioni possono essere vere e di senso anche usando i mezzi digitali e di converso possono essere finte e di plastica anche di persona. La differenza non la fanno mai gli strumenti ma le persone e come le persone li usano». Cosa si attende un fedele o comunque un utente da un sito diocesano o parrocchiale e dagli annessi profili social? Esistono dei destinatari di cui tenere particolarmente conto? «Ogni fedele è una persona con delle attese e delle esigenze proprie. Ciò che si aspetta è innanzitutto rispetto e chiarezza. Si aspetta di trovare percorsi e spazi “per lui”, qualunque sia il suo ruolo. E poi cerca una comunicazione vera. Non calata dall’alto, ma orizzontale. Da persona a persona. Un sito web è la “casa digitale” di una parrocchia o di una diocesi. Da come viene curato, da come comunica con i fedeli, da come fa comunità ci trasmette quanto la realtà parrocchiale o diocesana è. Sui social la questione è ancora più complessa. Normalmente vengono usati come bacheche elettroniche dove postare avvisi o articoli. Ma i social sono luoghi di relazione. E se non li si usa per fare comunità, si spengono». Quanto e come abbiamo sfruttato il web in questo periodo pandemico? Un bilancio positivo o negativo? «Intanto dobbiamo dire che la pandemia ha colto tutti di sorpresa e che quindi siamo stati costretti a imparare in fretta senza avere molto tempo per ragionare bene su quello che volevamo e dovevamo fare. C’era un’esigenza di comunicazione e di relazione (penso, per esempio, alle Messe in diretta streaming) e ci siamo adeguati. L’errore semmai lo stiamo facendo adesso. Mentre la pandemia lentamente decresce pensiamo di potere tornare al mondo e al modo di prima come se niente sia successo. Invece è successo tutto». © riproduzione riservata

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