1 Maggio 2024
13' di lettura
Raffaello Marchi era nato a Nuoro il 28 maggio 1909 , dove ha vissuto per circa i primi vent’anni della sua esistenza, e dove tornerà a vivere dopo un decennio trascorso nella penisola, prima a Firenze (dove frequentò Romano Bilenchi, Ottone Rosai), poi a Milano (AlfonsoGatto, Guttuso, Quasimodo), successivamente ancora, a Roma, dove frequenterà il Centro Sperimentale del Cinema ( e dove conosce e frequenta,fra gli altri, Pietro Ingrao).
Chi era Raffaello Marchi?
Sentiamo come lo racconta, indirettamente, Joyce Lussu mentre parta di Elisabetta Lovicu, nella introduzione alla Sibilla barbaricina:
Elisabetta… “guariva le ustioni gravi e le ferite infette…su questo mi ripromettevo di parlare a lungo in visite successive; ma non potei mai farlo, perché improvvisamente, ancora bella e giovanile e prosperosa e ridente nei suoi abiti splendenti e colorati, Elisabetta morì.
…La vidi emergere anni più tardi, nelle ragazze dai capelli al vento e dai golfini rossi che marciavano su Pratobello per contendere ai militari e ai militaristi i loro pascoli e le loro querce millenarie. Allora con Raffaello Marchi ( che era anche lui un barbaricino dell’altro filone storico, un uomo mite e gentile con sempre un lampo di allegria negli occhi, nonostante la miseria e gli acciacchi) tessemmo l’elogio tardivo di Elisabetta.
“Era una donna meravigliosa”, mi disse. “Ho tanti e tanti appunti su di lei, sulla sua cultura sarda, della Sardegna più vera,calpestata. Devo scriverci un libro. Lo intitolerò La sibilla barbaricina”. Ma non lo scrisse mai, perché anche lui andò a dormire sotto terra, in una bara economica, finita di pagare parecchi mesi più tardi”.
E sentiamo ancora chi era Raffaello Marchi attraverso le parole di Clara Gallini, se mal non ricordo in Lettere dalla Barbagia:
…era “quella persona lieve e ironica, ma anche sofferta per segrete lacerazioni, che dava il meglio di sé nei conversari, sempre disponibile a condividere le sue esperienze con altri”.
Consentitemi di riprendere ancora per un po’ il racconto degli eventi che hanno segnato la biografia di Raffaello Marchi. Nell’agosto del 1935 Raffaello Marchi contrae matrimonio con Mariangela Maccioni, nata anch’essa a Nuoro il 17 aprile 1891, piu grande di lui di circa 20 anni.
La testimonianza del bellissimo rapporto d’amore e d’intelletto… perfino spirituale direi… fra Angela e Raffaello è contenuta, oltre che nella corrispondenza privata, in un libro mai concluso, come non pochi dei lavori di Marchi, e dalla lunga gestazione, conclusasi con la morte stessa di Raffaello Marchi.
Quel libro, il cui titolo è Memorie Politiche di Mariangela Maccioni, da conto della splendida biografia di questa “maestra resistente” e del suo impegno politico/intellettuale contro il fascismo in quel piccolo centro, quale Nuoro era nel ventennio.
Nella premessa, Raffaello Marchi rende esplicita la preoccupazione di non fare della pubblicazione delle Memorie un evento commemorativo, e nel contempo rende merito pubblico all’impegno civile e politico della Maccioni e del coraggioso sodalizio fra lei e Graziella Giacobbe, e l’intenso confronto politico/intellettuale con Marianna Bussalay.
Il pomeriggio del 26 settembre 1958 Mariangela Maccioni muore improvvisamente.
Cessa così drammaticamente un legame di solidarietà umana, di complicità d’amore e d’intelligenza, vissuto con grande rispetto per la libertà reciproca che si erano giurati come fondamento del loro rapporto.
Per Raffaello Marchi iniziò un periodo doloroso e difficile, che lo distolse per un tempo prolungato dalle sue passioni e dai suoi interessi civili, culturali e politici.
Entro ora un po’ nel merito della personalità intellettuale e politica di Raffaello Marchi, utilizzando, con molte citazioni, le note di introduzione di Clara Gallini ai non moltissimi scritti organici di Raffaello.
In particolare mi rifarò alla presentazione delle Lettere dalla Barbagia, pubblicato nel 1982, costruito attraverso un’opera di “ricucitura” di numerose corrispondenze a Il Nuovo Corriere di Firenze, che vanno dal 1952 al 1955, effettuata da Luisa Delogu,legata anch’essa, come il fratello Ignazio, da grande amicizia per Raffaello.
In queste note Clara Gallini fa trasparire il vecchio rapporto di amicizia fra Raffaello Marchi ed Emilio Lussu , con cui ha intrattenuto un epistolario dai toni…si potrebbe dire…familiari, di grande confidenza,di condivisione di un orizzonte politico e di consuetudine di un’amicizia profonda.
Vi è ricordata la collaborazione di Raffaello Marchi al numero della rivista fiorentina “Il Ponte” del 1951 dedicato alla Sardegna e ideato da Piero Calamandrei e dallo stesso Emilio Lussu, “in cui la Sardegna si offre ai “continentali” come scoperta e come denuncia”.
Raffaello Marchi vi pubblica tre interventi molto diversi fra di loro, “a indicare possibili direzioni di una ricerca da intraprendere”.
In queste stesse note, Clara Gallini colloca a far data dal 1952 una serie di scambi culturali fra Raffaello Marchi e il “continente”.
In particolare, risale a quell’anno l’inizio della frequentazione con Ernesto de Martino, a cui vanno ricondotti i rapporti di Raffaello Marchi con studiosi del calibro dell’etnomusicologo Diego Carpitella e l’etnografo Franco Cagnetta.
A questo stesso periodo si ascrive l’attività più intensa di Raffaello Marchi nella compilazione di materiali di ricerca etnografica in forma di note, notevolmente disomogenee, ma …”dense, ricche, disponibili ai più diversi ordini di lettura”.
…”La sua casa diviene frattanto il crocevia di scrittori; Nuoro e Orgosolo sono in auge per un’intelligentzia assieme curiosa e impegnata, e Marchi diventa quel che si direbbe l’esperto di cose locali. Ricerca, ma non scrive. Raccoglie materiali ma non li elabora”.
Ancora Clara Gallini: “sono questi i fervidi anni in cui la “questione meridionale”, già individuata come grosso nodo economico e sociale, viene ad arricchirsi di una nuova dimensione: quella culturale”
“Dal Cristo si è fermato a Eboli, agli scritti di Gramsci e de Martino si giunge a una complessa riflessione critica sui rapporti fra cultura e classi sociali”.
“La appassionata denuncia della miseria economica del nostro meridione non poteva più esaurirsi nei limiti di un ristretto discorso economicistico, ma iniziava ad aprirsi verso altre direzioni, che comportavano una nuova sensibilità rispetto al dato culturale”
Dentro la “questione meridionale”, la “questione sarda” veniva individuata per una sua specificità, quasi fosse una variante autonoma della “questione” più generale.
“La battaglia per la concreta attuazione dell’autonomia regionale comportava forme di rivendicazionismo culturale che tenevano presente la particolarità della storia della Sardegna nei suoi rapporti con i suoi diversi e successivi stati dominanti”.
Quelli dell’immediato dopoguerra furono gli anni della forte presenza di Emilio Lussu nel Partito Sardo d’Azione, gli anni di Ichnusa di Pigliaru e più avanti di Miele Amaro di Salvatore Cambosu e della Vendetta barbaricina come ordinamento giuridico di Pigliaru.
Vi è un intenso dibattito politico culturale attorno alla questione dell’autonomia sarda, documentato appunto dalla rivista il Ponte del 1951, dove viene presa in considerazione non solo la cultura “alta”, ma anche la cultura popolare.
Cultura popolare valutata “non come mero relitto folclorico”, ma espressione di una specificità storico-politica e culturale.
Proprio linizio degli anni 50 registra una serie di contributi sulla questione del banditismo sardo, tra i quali, particolarmente rilevanti quelli di Emilio Lussu, di Franco Cagnetta e dello stesso Marchi.
Li accomunava la denuncia del ruolo repressivo dello Stato nei confronti delle comunità antagoniste del cuore della sardegna, evidenziatosi soprattutto nei rapporti con la comunità di Orgosolo.
Il fenomeno di banditismo in particolare,con tutte le sue conseguenze, vengono ricondotti al rapporto antagonista fra cultura locale e cultura degli stati via via dominanti.
Ma,diversamente che per Cagnetta, che vede lantagonismo(il banditismo)come conseguenza della storia ereditata dai sardi dai tremila anni precedenti, per Lussu e Marchi lantagonismo dei sardi verso lo stato dominante è qualcosa che si rinnova nella storia e non riguarda sono i banditi, ma riguardano le masse contadine e pastorali che vivono una condizione di oppressione economica e sociale, impediti con la forza persino di esprimere la propria cultura.
Clara Gallini, vede in nuce – in questa comune analisi dei fenomeni connessi al banditismo – l’affacciarsi del tema di quella che più avanti Giovanni Lilliu avrebbe chiamato “costante resistenziale”: l’antagonismo che si alimenta della tradizione culturale dei sardi e che diventa forza attiva nella trasformazione dell’isola (autonomia-rinascita).
Ancora una volta, la rivista il Ponte che, come abbiamo ricordato, aveva pubblicato nel 1951 un numero speciale sulla Sardegna, pubblica nel 1954 una interrogazione parlamentare di Emilio Lussu sul banditismo sardo. In quell’intervento è molto ben chiarita questa linea di pensiero che condurrà alla cosiddetta “costante resistenziale”, là dove Lussu descrive la storia sarda come un processo di continue colonizzazioni e riconduce la natura del fenomeno del banditismo alla “resistenza delle comunità pastorali della montagna contro l’invasione straniera”.
L’interrogazione di Lussu, i suoi numerosi interventi in sede politicha, i suoi scritti, come quelli di Marchi, come l’intervento di Velio Spano su Rinascita, la rivista ideologica del Pci, puntano dritto alla necessità (da suscitare come istanza politica di tutti i sardi) di una pronta elaborazione ed attuazione di un piano per la Rinascita della Sardegna, che prendesse le mosse dalle premesse poste da questi e, sempre più numerosi, altri interventi del ceto intellettuale e politico sardo.
Il Piano di Rinascita doveva rappresentare la rinuncia da parte dello stato centrale ad una politica di intervento di tipo militare, della tentazione di porre in essere “leggi speciali” per la Sardegna e per il Meridione; in sostanza il superamento del rapporto conflittuale fra i sardi e lo stato nazionale.
Ho ricordato precedentemente come, con la morte della moglie Mariangela Maccioni,avvenuta nel settembre del 1958, Raffaello Marchi venga travolto da un profondissimo sconforto e da una lunga crisi che lo allontana per lungo tempo da ogni forma di impegno culturale e politico.
Raffaello Marchi torna alla ricerca e alla scrittura (sia pure prevalentemente nella forma frammentaria di “appunti”, che contraddistingue la sua produzione) nei primissimi anni ’60, nell’occasione di un importante convegno promosso da Ernesto de Martino e, successivamente, con quella della pubblicazione di alcuni fascicoli sulla Sardegna in “Tuttitalia a Enciclopedia dell’Italia antica e moderna”
Da allora e fino a tutti gli anni ’70 Raffaello Marchi mantenne vivo il suo impegno di “nume locale” della cultura in Barbagia, partecipando attivamente alla vita culturale cittadina e isolana ,animando iniziative teatrali, recensendo mostre di giovani artisti, ( cito quella dei pittori Buesca, Floris e Salerno, allestita al Circolo Turati di Nuoro, dal titolo eloquente rispetto alla visione e al ruolo, che Marchi aveva maturato, delle arti figurative: “Pittori-lavoratori contro il disimpegno; vitalità e passione del reale”; ancora le recensioni e presentazioni dedicate alle mostre di Zizzu Pirisi.
Marchi si impegnò in tutti quegli anni, fino alla sua scomparsa,porgendosi alla collaborazione con molti studiosi e ricercatori degli ambiti disciplinari che erano propri agli interessi dei suoi studi e delle sue ricerche.
Fu Vice Presidente dell’Istituto Regionale Etnografico, quando ne era Presidente il suo grande amico Giovanni Lilliu, con cui ebbe un rapporto di amicizia intellettuale assiduo e costante (come fu anche,tra gli altri numerosissimi, con Francesco Masala, Ignazio Delogu, Costantino Nivola, Salvatore Cambosu, Maria Giacobbe e Maria Lai e Luisa Delogu).
In quella veste diede il suo ultimo importante contributo alla cultura sarda, curando la ristampa anastatica de Il Ponte-Sardegna del 1951, in occasione del Convegno di studi su “Emilio Lussu e la cultura popolare della Sardegna”, promosso nell’aprile del 1980 dallo stesso Istituto Etnografico.
Per quella ristampa scrisse una nota introduttiva lucida e sobria, come era nello stile della sua prosa compiuta, in cui attribuisce a quel numero de Il Ponte il valore di testimonianza e documento di un periodo della storia sarda, di transizione dal dopoguerra all’Autonomia, in cui la cultura sarda “comincia a dare i primi frutti”, come egli stesso scrive.
In particolare quel volume “ebbe il carattere di recupero di identità e di coscienza critica dei sardi (specie con gli articoli di Lussu e alcuni altri autori), nel quadro di una rivendicazione e di una liberazione della realtà isolana dalle formule, sempre così radicate nella più ordinaria opinione pubblica nazionale, e sempre così restrittive e frustre, del sardo o eternamente ‘eroico e fedele’ o eternamente ‘primitivo e bandito'”, come appunto ci ha ricordato Clara Gallini.
Fin qui le vicende e la sintesi di una storia umana, culturale e politica, vissuta da Raffaello Marchi da intellettuale curioso, consapevole, critico ed impegnato, quale fu esemplarmente per tutta la vita.
Dico esemplarmente a ragion veduta e non per esigenza di retorica, perché io stesso,come,soprattutto,moltissimi giovani artisti ed intellettuali della mia e di alcune successive generazioni, siamo debitori a Raffaello Marchi di una lezione di vita di grandi contenuti, (e per quanto mi riguarda ben oltre i miei meriti): di una educazione al rigore e ai valori dell’estetica come fondamenti delle nostre personalità: ricerca, curiosità e senso critico come metodo per la interpretazione della realtà circostante.
Mitezza, gentilezza e ironia sottile e sorridente, sono stati gli altri aspetti della sua identità pubblica e privata : di questi aspetti non so quanto avremo preso… ma rendono sicuramente più vivido il rimpianto per una persona unica e straordinaria come Raffaello Marchi è stato per tanti di noi.