Alcune foto di Emilio Ronchi a corredo del reportage di Massimo Mauri apparso su Epoca il 14 febbraio 1960
L’avventura dei maestri itineranti
di Redazione

7 Novembre 2023

7' di lettura

Erano gli anni Cinquanta del ventesimo secolo. Proprio in quegli anni il professor Antonio Pigliaru preparava la stesura del Codice barbaricino, come ordinamento giuridico, che gli darà notorietà e fama. Per tale motivo aveva spesso a che fare con il mondo dei pastori. Questa frequentazione gli diede la possibilità di rendersi conto della totale mancanza di alfabetizzazione di quel mondo. L’analfabetismo era pressoché totale. Resosi presto conto della gravità del problema, fece di tutto per metterne al corrente l’intellighenzia che gravitava intorno a lui in quegli anni a Sassari: da Brigaglia a Berlinguer, da Cossiga a Sole, da Masala a Melis Bassu. Coinvolse quindi tutta la classe politica della Sardegna. Tanto fece, brigò, insistette che finalmente qualcuno si svegliò. Si decise di intervenire con una coraggiosa opera di alfabetizzazione di massa.  

Nacque così la Scuola Itinerante. Si mandò cioè la Scuola direttamente nel mondo del lavoro, nelle campagne, visto che quella grande massa di popolazione, da piccoli, non aveva avuto la possibilità, per varie ragioni, di frequentare almeno la Scuola primaria, quella che si diceva del leggere, scrivere e far di conto.

Ed avvenne così che noi giovani diplomati, freschi di studi e di speranze, fummo fiondati nel mondo agropastorale delle nostre campagne col compito preciso di insegnare ai nostri pastori giovani e vecchi le prime basi del sapere. Si trattava di insegnare a questi uomini rudi e duri a tenere una penna in mano e ad iniziare ad usarla per scrivere quei segni, che noi chiamavamo scrittura.

Erano mani grosse, nodose e forti; poco o nulla abituate a tenere fra le dita una penna, e a tracciare con delicatezza quei piccoli simboli fra le righe di quadernetto. Mani abilissime a usare l’ascia o la roncola, a mungere due o trecento pecore due volte al giorno per tutti i giorni, fare il formaggio, tagliare la legna per il fuoco; spaccare tronchi, allineare massi per costruire muretti a secco. 

Ed ho visto questi uomini duri prima increduli, poi imbarazzatissimi e quasi vergognosi, certamente incapaci di poter fare questo difficilissimo lavoro. Ho visto molti in crisi tentare di rifiutare quasi con rabbia; altri che avevano provato ad iniziare, abbandonare tutto e mandare penne, quaderni, e persino noi, a quel paese. Qualcuno però rimase, tenne duro con uno sforzo di volontà notevole. Certo non tutto filò liscio, le difficoltà erano tante, i problemi grossi, Le risorse… lasciamo perdere.

Gli inizi furono duri, per tutti: per loro e per noi. Nelle nostre periodiche relazioni alle autorità scolastiche indicavamo i problemi a cui via via andavamo incontro, indicavamo le soluzioni adottate, chiedevamo consigli, aiuti, anche economici, ma quasi mai ottenevamo risposte. Intanto i nostri alunni pastori, cominciavano a stimarci, ad aspettarci, e qualche volta li sorprendevamo a spiare il nostro arrivo. Ci avevano persino affibbiato il nomignolo di “maestri volanti”, non itineranti, come ci indicava la burocrazia scolastica. Talvolta scoprivamo che non sapevano leggere e scrivere, ma sapevano benissimo fare i loro conti, a volte meglio di noi, a mente e non per iscritto. La loro speciale aritmetica aveva nome preciso, si chiama “Derrama”.

Un giorno, quasi per caso, decidemmo di far conoscere tramite la stampa la nostra situazione al grande pubblico. Ed ecco materializzarsi, quasi per incanto, in mezzo a noi gli inviati speciali di giornali e rotocalchi, pronti a scoprire la Sardegna e questi suoi strani abitanti.

Osservavano, parlavano, interrogavano, si intrattenevano con le persone, alcuni scrivevano qualche articoletto di folclore, scattavano qualche foto e poi sparivano. Però ci furono anche inviati più seri che realizzarono dei bei servizi, correlati di foto. Mi piace ricordare l’inviato dell’Avanti, Pasquale Riga, che si stupì alquanto, e scrisse dell’abbandono da parte dello Stato di tutta la Sardegna e in particolare di quella nostra zona interna, dei gravi disagi e del miracolo di sopravvivenza delle nostre popolazioni, che riuscivano a strappare redditi persino da quelle inospitali pietraie. 

Miracolosamente cominciarono a svuotarsi le biblioteche di tutta Italia ed ecco arrivare decine di pacchi di libri e di materiale di cancelleria e quello che non aveva fatto Io Stato lo fece il buon cuore degli italiani. Furono molti a gradire tutti quei libri, ma tanti altri chiesero con insistenza i libri dei nostri poeti sardi. Non eravamo evidentemente in grado di soddisfare le loro richieste, ma facemmo comunque del nostro meglio. Poi, silenziosamente come era incominciata, la nostra avventura finì. 

Prima di chiudere però, voglio ricordare l’episodio che più mi è rimasto nel cuore. Ancora ho negli occhi la gioia, la soddisfazione e la commozione di un non più giovane alunno, che una mattina venendomi incontro, mentre come ogni giorno arrivavo al suo ovile, mi sbandierò davanti al muso un suo quaderno piuttosto unto e sbrindellato e fortemente segnato da epiche e feroci battaglie e quasi gridando: «Guarda! Ho scritto il mio nome, ora so mettere la mia firma. Glielo faccio vedere io a quel c… di impiegato che mi sfotte sempre perché non so mettere la mia firma».

E con mano che gli tremava di gioia o di rabbia mi porse quel suo quaderno, liso, sporco con i margini dei fogli spiegazzati e arrotolati. Li dentro c’era tutta la sua rabbia, la sua fatica, la sua tenacia, la sua dignità. Lo avrei abbracciato per la commozione e la gioia che mi trasmetteva in quel momento. Non l’ho fatto. Non stava bene. Non bisogna essere così sentimentali fra uomini. Ma ancora mi dispiace non averlo fatto. Presi quel quaderno, lo aprii e vidi linee contorte, irose, che salivano e scendevano in ogni direzione, senza alcun senso, man mano che giravo i fogli, quelle linee senza capo ne coda, che sembravano scarabocchi di un bimbetto, cominciavano a prendere forma pagina dopo pagina, fino alle ultime. Li si era compiuto il miracolo, compariva il suo nome, monco, storpiato, senza un benché minimo ordine, dall’ alto in basso, dal basso in alto, con una lettera una più grande altre storte e accavallate, ma infine con una certa parvenza di ordine e sempre più complete, e in fondo il capolavoro: il suo nome per intero, quasi simile a quello che gli avevo dato da copiare per allenarsi; istintivamente presi la penna e, in fondo alla pagina, scrissi Bravo! e a voce alta glielo ripetei più volte. Mi strappò quasi di mano il quaderno, lo baciò, lo richiuse e se lo mise nella tasca interna della giacca, accuratamente, religiosamente. Mi sorrise e contemporaneamente mi diede una pacca sulle spalle, da staccarmi il cuore. Ci avvicinammo alla casetta, tirò fuori un fiasco di vino e quel giorno festeggiammo e facemmo baldoria.

Giovanni Pala Mundanu

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