Il dove e l’altrove dei nostri defunti
di Bachisio Bandinu

1 Novembre 2023

4' di lettura

Il due novembre è il giorno della memoria che rinnova i legami di affetto e d’intima comunione con i nostri cari defunti: una corrispondenza d’amorosi sensi. Incamminarsi verso il cimitero è una processione che abbrevia una distanza spaziale e temporale con i nostri morti. Superare la soglia del camposanto segna l’entrata nell’oltremondo che ricorda il nostro destino mortale. Eppure davanti alla tomba sgorgano parole familiari, persino battute confidenziali, perché ci si ritrova tutti uniti a colloquio. La preghiera è una orazione che si rivolge e si riceve, nello scambio di fede, di comunione tra Chiesa militante, purgante e trionfante. Ma anche la parola laica ha un orizzonte trascendente: c’è un dove e c’è un altrove. Due mondi che dicono di un taglio da rimarginare, una cicatrice come traccia di memoria, e per i credenti la profezia di separazione e ricongiungimento: a nos videre in su chelu. Eppure in quel cimitero dove pare che la pace si distenda nell’intimità della terra e si riposi nel suo silenzio più profondo, non si fa altro che invocare la pace, come se mancasse. Forse vuol dire che, nell’esperienza della nostra visita al camposanto, si avverte una mancanza, che qualcosa ci manca. Ed è una mancanza che ci accompagna, forse per un po’, ancora fuori della soglia, fuori dalle mura. Ma è memoria incancellabile nel racconto, appena sussurrato, di una madre: ho parlato e pregato a lungo davanti alla tomba di mio figlio, si era fatto sera, nell’andare via, ho gettato un ultimo saluto all’effige e il suo sguardo mi lanciava una preghiera accorata “non lasciarmi solo”. 

Così le lacrime accompagnano anche il ritorno a casa. 

Da dove vengono le lacrime e dove vanno? Sgorgano dalla fonte degli affetti vissuti insieme e alimentati amorosamente. E vanno per vene interrate sino a giungere a quella zolla che ha accolto il corpo del defunto, a quell’humus che ha la stessa radice di humanitas e di homo

Per provare sentimenti profondi nel percorrere le vie del camposanto, bisogna mettersi in cammino con l’autore de Il giorno del giudizio, in sa ‘e Manca e osservare le effigie meditando in un drammatico scenario di vita e di morte, o invece camminare leggeri, recitando epitaffi e ricordando episodi. 

Restituiti alla vita quotidiana nella comunità dei viventi, si attenderà forse il ritorno del due novembre per ancora ricordare?

Il consiglio è di andare in cimitero il tre novembre, quando è finita ogni sacra funzione, per vivere anche noi il desiderio del poeta: in ammentu a s’antica passione / tue des benner a sa tumba mia / isparghennebi fozas de olia, / des faghere lagimenne orazione. Per poter dire anche in casa: No mi des olvidare anima bella / finas chi tene’ palpitu su coro.

Perché abbiamo timore passando da soli a lato del cimitero nella sera già inoltrata? È il rapporto col mistero che sperimenta ogni persona con quel mondo visibile ed invisibile, familiare ed estraneo. Dunque, perturbante. Rientrando da una festa, un gruppo di giovani percorreva il sentiero attiguo al camposanto, smise di parlare e di lanciare battute, come presi da un sentimento di timore, uno sgomento misterioso. Si sono fermati vicino al cancello, hanno fatto cerchio, e hanno intonato un canto: Ai nostri fratelli afflitti e piangenti / Signor delle genti perdono e pietà / Ai nostri fratelli dai dunque riposano /O Padre amoroso perdono e pietà. Il rientro a casa fu come un pellegrinaggio. Quelle parole, perdono e pietà, cantate con voce rauca e implorante, a chi erano rivolte? Forse, ai defunti e anche ai vivi.

Il due novembre è una festa, è commovente innalzare canti di preghiera e di fiori, ed è segno di dolce memoria assaggiare papassinos pro sos mortos. E se qualche donna, femina de ammentu, vuole imbandire la tavola per la cena dei morti, avrà la grazia di un breve passaggio per il purgatorio.

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