La devastazione a Bitti nel 2020 (photo by Cristian Mascia)
Dissesto, la prima azione è culturale
di Luca Mele

6 Giugno 2023

6' di lettura

All’indomani della tragedia in Emilia-Romagna, anche in Sardegna le piogge abbondanti degli ultimi giorni hanno riportato la paura. Questo perché rimane il triste ricordo delle alluvioni passate. Per analizzare il fenomeno abbiamo incontrato Davide Boneddu e Mario Nonne, rispettivamente presidente dell’Ordine dei geologi della Sardegna e consigliere nazionale dello stesso Ordine.

La preoccupazione di questi giorni è riferita agli eventi meteorologici oppure la radice dei timori è da riferirsi principalmente alla geomorfologia e allo sfruttamento del suolo?
«La Sardegna è la regione che veniva erroneamente definita “senza frane”, un’isola felice dove il dissesto idrogeologico non costituiva alcuna preoccupazione per la popolazione. Poi, purtroppo, siamo stati colpiti duramente da eventi naturali straordinari e calamitosi: Capoterra nel 1999, Villagrande nel 2004, il Ciclone Cleopatra nel 2013, Bitti nel 2020, i cui segni, oltre che nella memoria per le perdite di vite umane, restano impressi nelle cicatrici ancora presenti sul territorio. La Sardegna, come il resto del territorio italiano, è quindi molto esposta. All’indomani della catastrofe di Sarno nel 1989, nelle varie regioni italiane sono stati predisposti i Piani di Assetto Idrogeologico, gli Inventari dei Fenomeni Franosi, i Piani Stralcio delle Fasce Fluviali, il Piano Generale del Rischio Alluvioni. Oggi, grazie a questi strumenti e riferendosi al solo all’ambito urbano, sappiamo che sono circa 170 i comuni con almeno un’area esposta ad una “pericolosità idraulica” da media a molto elevata e circa 190 quelli con almeno un’area urbana esposta ad una “pericolosità da frana” da media a molto elevata. Va peraltro richiamato il fatto che non tutti i comuni sardi sono forniti di un Piano di Assetto Idrogeologico di dettaglio; si deve immaginare che i dati descritti siano una quantificazione approssimata, e presumibilmente in difetto, rispetto alla reale situazione. La preoccupazione e le paure derivano dalla constatazione che troppo spesso le pianificazioni del territorio sono state per nulla attente ai fenomeni e alle dinamiche naturali, generando le conseguenti condizioni di pericolo alle quali sarebbe possibile ovviare solo con una corretta gestione e manutenzione del territorio. Ad esempio, sarebbe auspicabile che i Piani di protezione civile fossero meglio tarati su una conoscenza più precisa e dettagliata delle pericolosità a cui è soggetto il territorio e la popolazione che in esso vive. Se manca questo neanche i Piani di Protezione Civile potranno essere pienamente efficaci ed efficienti».

Quali sono stati nel nuorese gli errori più gravi nella cura del territorio, nell’urbanizzazione, nella manutenzione degli argini e dei letti dei fiumi?
«Il nuorese soffre del medesimo problema che affligge tutto il resto del territorio italiano, ovvero un aggressivo processo di urbanizzazione che non ha tenuto conto di quelle che sono le vere vocazioni, attitudini e suscettività del territorio. A questo si deve aggiungere che la manutenzione e la gestione del territorio ha trovato ben pochi riscontri nei bilanci regionali. Intervenire a posteriori non solo risulta molto complesso ma anche inutilmente dispendioso, considerate l’ingenza delle spese di ripristino dai danni rispetto a quelle possibili con adeguate misure di prevenzione. E in talune circostanze bisognerà prendere atto che solo un doloroso processo di delocalizzazione delle infrastrutture a rischio possa costituire una reale e sostenibile soluzione. La manutenzione degli argini e delle pertinenze fluviali avviene con interventi parziali sulle unità fisiografiche che, nella migliore delle ipotesi, hanno una limitata efficacia. A nostro avviso, la visione emergenziale di intervento deve essere superata con un’azione programmatoria che pianifichi interventi coordinati a scala di bacino idrografico; dovremmo avere sul nostro territorio l’approccio del buon padre di famiglia e programmare interventi, strutturali e non, che interessino i fiumi dalle sorgenti alle foci e i versanti dalle creste ai fondo valle».

Pensate che il cambiamento climatico sia determinante in questa devastazione oppure è un alibi per non riconoscere errori del passato che portano ancora oggi conseguenze disastrose?
«Il cambiamento climatico è certamente uno dei principali fattori che contribuiscono all’aumento dei fenomeni di dissesto: attualmente, nella nostra regione si registrano picchi di aumento della temperatura media ed una concentrazione dei periodi piovosi che, tra l’altro, si manifestano con modalità sempre più intense. In questo scenario di estremizzazione degli eventi naturali le scelte urbanistiche passate, che non hanno tenuto conto delle peculiarità e delle attitudini geologiche del territorio, andrebbero studiate con maggior cura per minimizzarne i rischi. La devastazione, i danni materiali, la perdita di vite umane sono legate ad una presenza non sufficientemente ponderata dell’uomo su territori in sempre più rapida evoluzione. Oggi non abbiamo più tempo per piangere sul latte versato, ma dobbiamo attrezzarci attraverso piani di assetto e gestione idrogeologica che individuino ben definiti interventi, strutturali e di presidio, incentrati sull’adattamento delle attività antropiche al cambiamento climatico in atto».

Davide Boneddu
Mario Nonne

Quali interventi sono possibili e che tipo di prevenzione si può attuare? Cosa bisogna evitare o fermare immediatamente? O cosa rimane di irrimediabile?
«Di irrimediabile c’è solo la perdita delle vite umane che rappresenta un inaccettabile punto di non ritorno. Il primo passo che occorre fare è sul livello culturale: i cittadini, tutti, dovrebbero essere più consapevoli delle dinamiche che regolano l’evoluzione del territorio con cui interagiscono. Dobbiamo poi capire quali siano le reali attitudini del territorio in cui viviamo, facendo sì che laddove i fenomeni di dissesto idrogeologico non siano risolvibili con i classici interventi di mitigazione si lasci il passo alle dinamiche della natura, impostando in quei luoghi condizioni di crescita strettamente coerenti con uno sviluppo ecosostenibile. Per concludere, ieri come oggi ci chiediamo perché le istituzioni regionali, anche in questi anni in cui la Sardegna ha subito calamità naturali devastanti, non abbiano strutturato un Servizio Geologico Regionale suddiviso in presidi territoriali dove operino professionisti i quali sappiano leggere il territorio e cogliere i segnali di eventi naturali parossistici. Un tale organismo potrebbe dare organicità, concretezza e prospettiva alla cultura geologica in Sardegna e consentire così ai geologi di dare al meglio il loro contributo sui temi della pianificazione, della gestione e manutenzione del territorio, della difesa del suolo. Se non si investe in “cultura geologica”, tutti gli strumenti di pianificazione, manutenzione e gestione dello stesso rischiano di essere vissuti dalle comunità solo come vincoli e non come presidi necessari all’incolumità pubblica, con conseguenti impatti negativi sull’efficienza e l’efficacia dei Piani di Protezione Civile».

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