(photo by Aurelio Candido)
Carnevale o carrasecare?
Se togli la maschera c’è un’altra maschera, non compare il volto dell’uomo. C’è stata una metamorfosi: un uomo non è più un uomo. Ed è il rito ad avviare la mutazione radicale.
di Bachisio Bandinu

6 Febbraio 2024

4' di lettura

Nell’occasione dei carnevali barbaricini, sorge una domanda intrigante: quale è la differenza tra la maschera del mamuthone e quella di Arlecchino, e ancora tra la maschera del boe di Ottana e quella di Zorro, tra la maschera dei thurpos di Orotelli e quelle caricaturali di personaggi famosi da irridere? Una differenza radicale e non confrontabile. Il raffinato carnevale veneziano e quello spettacolare di Viareggio rappresentano la scena teatrale del camuffamento. Si indossa una maschera per nascondere il viso o per deformarlo. C’è sempre un rapporto tra volto e maschera. Arlecchino è un tipo psicologico, l’astuto servitore di due padroni. Viareggio o Tempio fanno sfilare i carri allegorici facendosi beffe di personaggi da mettere alla berlina: l’allegoria ci permette di riconoscere dietro la maschera il personaggio di riferimento.

Niente di tutto ciò nei carnevali della Sardegna centrale. Il mamuthone è la maschera enigmatica di un rito arcaico; il boe ha perso la sua umanità ed è diventato un animale-dio; su thurpu diventa cieco per vivere l’esperienza del sacro. Nessun rapporto tra volto e maschera. Se togli la maschera c’è un’altra maschera, non compare il volto dell’uomo. C’è stata una metamorfosi: un uomo non è più un uomo. Ed è il rito ad avviare la mutazione radicale. La vestizione è l’esperienza di una trasformazione incalcolabile. Le funi si stringono intorno al petto del mamuthone comprimendo il respiro, storcendo il corpo, si indossa la giacca al rovescio, la maschera nera di pero scende sul volto, si copre la testa con il fazzoletto femminile. L’uomo diventa mamuthone. La maschera sprofonda in sé stessa, i buchi neri dello sguardo sperimentano l’oscurità della luce.

A Ottana, si copre il corpo con la mastrucca, vello di capre o di pecora, si stringe la maschera bovine dalle lunghe corna, sulle spalle un mazzo di campanacci. L’uomo diventa boe. Una perdita totale d’identità. 

A Orotelli, i giovani mettono al fuoco la corteccia di sughero e si dipingono il volto di fuliggine per diventare thurpos, i ciechi. Procedono con salti e muggiti, esplodono in atti e gesti di violenza, strappano le funi, tirano calci, aggrediscono le persone. È la terribile violenza del sacro.

Quella dei mamuthones non è una sfilata, è una processione sacra. Procedono in modo sghembo con passo impastoiato. Il corpo ha un ritmo asimmetrico e avanzano per saltelli. Il rito non ha parola né canto né musica. Risuona il muggito, l’urlo strozzato, il respiro contratto, il suono cupo dei campanacci. È un linguaggio fonico-ritmico che testimonia un’impasse del vivere.

Con difficoltà i merdùles tentano di tenere a freno i boes scatenati, presi dalla pulsione incontenibile. 

 Ciò che più colpisce nel carnevale barbaricino è la relazione col sacro, la tensione comunicativa con gli dei, la relazione con la natura e la sua forza generatrice, il rapporto con l’acqua, la terra e i morti e l’ansia di rinascita. Per questi motivi sono carnevali che ancora ci appartengono e ci chiamano a una esperienza da vivere e da meditare. Sono maschere del nostro tempo. Come le viviamo nelle opere e nei giorni della persona e della comunità? Oggi, in Sardegna le nostre maschere non sono quelle della commedia dell’arte, sono ancora maschere tragiche che noi tentiamo di rendere melodrammatiche, perché non siamo capaci di reggerle. Una identità mascherata. Siamo forse mamuthones, boes, thurpos? O magari, issocadores, merdùles, boinargios? La fuliggine dei thurpos è quella delle torri di Ottana? Stanno erigendo altre torri di acciaio che producono una fuliggine invisibile. 

Suvvia, basta con le tragedie, è tempo di commedie, è tempo di gioire, per piangere verrà la quaresima. Carrasecare meu torratinde/ pro ballare e cantare tempus novu. 

Tempus tuo, meruloto… chi vuol esser lieto, sia / di doman non c’è certezza. A ciascuno una maschera posticcia e ridanciana, pronta all’uso e facile da sfilare. Convinciamoci che le sfilate delle maschere tragiche siano espressione divertita e piacevole di un simpatico folklorismo. Lo strano e il pittoresco.

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