Alzheimer, la solitudine delle famiglie
di Franco Colomo

21 Novembre 2023

4' di lettura

Nuoro - Cosa succede tra le mura di una casa nella quale vive una persona affetta da Alzheimer lo sa, nella maggior parte dei casi, solo chi vi abita. È triste ma è la realtà. Ci sono malattie, come questa, che sono come un sasso tirato in uno stagno: rompono l’equilibrio e la serenità familiare e pian piano, a cerchi concentrici che si allargano, allontanano gli altri sempre più, sino a lasciare soli.
Un professionista di Nuoro ha accettato, con tanta sofferenza ma altrettanta dignità, di raccontarci la propria esperienza accanto alla moglie: le difficoltà nell’assistenza, le spine della burocrazia, la solitudine che a volte sente attorno. Ma c’è in lui anche tutta la dolcezza di un marito che dice alla sua sposa “ci sono io, io ti aiuto a ricordare, io posso darti quelle parole che ti mancano”.
«Chi ha questa malattia – ci spiega – ha bisogno di serenità, di sentire intorno a sé un ambiente accogliente, di acquisire pian piano familiarità con le persone, di imparare a fidarsi». È un percorso difficile, che – si può dire – comincia ogni giorno da capo e proprio per questo è impossibile affrontarlo da soli.
Paolo (nome di fantasia), da credente, non esita a rivolgere il suo pensiero alla comunità ecclesiale prima che a quella civile.
«La Chiesa – dice – deve realmente chinarsi sulle povertà, Cristo non è venuto per i sani ma per i malati, bisogna scendere in strada a raccogliere ciechi, storpi, questo fa la Chiesa, perché Cristo è lì, nella fragilità delle persone. Non lo dico io, lo dice la storia, i santi che hanno fatto grande la Chiesa – da Madre Tersa a don Milani – e se la Chiesa c’è ancora è perché si è rivolta ai poveri. Quindi prima ancora di occuparci delle strutture, delle chiese di pietra che magari rimangono vuote, pensiamo a occuparci della Chiesa di carne. Le strutture hanno un valore solo se c’è questa, una comunità di persone, e occorre andarle a cercare. Io vedo tanta solitudine in giro, tanta freddezza, anche nelle comunità parrocchiali non ci si conosce più, poi capita che in un palazzo muoia una persona e nessuno se ne accorga: come facciamo a sentirci cristiani?» – si domanda Paolo.
D’altra parte però c’è anche una comunità civile. In città operava una associazione, non c’è più. Ad oggi, due giorni la settimana, al pomeriggio, Progetto Uomo si occupa del centro sollievo: «Sono tre ore – spiega – una goccia nel mare. Ma ci dovrebbe essere un centro sollievo anche per noi, per chi cura le persone. Anche noi abbiamo bisogno di un aiuto morale ed economico».
C’è poi da affrontare anche la burocrazia per l’accompagnamento, la 162, per non parlare delle difficoltà nell’accedere al programma della Regione “Ritornare a casa”. Effettivamente, a vedere il formulario da compilare per avere un punteggio, si fa fatica a capire come una persona fisicamente sana – come può essere chi è affetto da Alzheimer – possa accedere a tale beneficio.
E allora torniamo all’inizio, al bisogno di fare rete per aiutarsi. «Penso – suggerisce Paolo – a quello che potrebbe fare magari la Caritas favorendo l’incontro tra le famiglie e badanti conosciute e referenziate. Si dice deve pensarci lo Stato ma lo Stato non ci arriva – ripete -. Forse nel Medio Evo erano più organizzati di noi, c’erano le confraternite, anche quella della buona morte. E oggi l’Alzheimer è quello che ieri era la peste, allontana le persone. Per questo abbiamo bisogno di metterci insieme. Non basta dire fratelli tutti, e lo stesso Sinodo – conclude – dovrebbe misurarsi su questo, su come siamo capaci di investire sulle fragilità».

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