Raffigurazione dei Martiri del Zenta
Quei gesuiti sardi pieni di deseo
di Francesco Mariani

10 Luglio 2022

4' di lettura

Ci sono infinite cose che noi decliniamo al passato senza capirne il rapporto con l’oggi. Abbiamo fatica ad attualizzare e contestualizzare l’avantieri. Troppi non sanno chi erano i loro nonni, figuriamoci i bisnonni. Abbiamo adottato la mentalità dei brevi confini negli accadimenti del tempo, del tutto e subito, incantati da un oggi senza un ieri, di un domani senza un oggi. Però, su tempus n’ischit prus de nois, non siamo noi a dominarlo e ci perseguita volenti o nolenti. Pensiamo al 27 ottobre 1683. Nel nostro villaggio-nazione, isolano ed isolato: che un gesuita olianese, Antonio Giovanni Solinas, morisse sbranato da altri uomini in Argentina (un luogo totalmente altro ed altrove, chiamato semplicemente America, in cussos atteros regnos) cosa poteva significare per il popolo di allora?

Lasciamo da parte i suoi parenti e conoscenti (aveva 40 anni, oggi lo considereremmo un giovanissimo) ma per gli altri? Se, stando nelle nostre contrade, ad ucciderlo fossero stati orunesi, orgolesi, dorgalesi e via elencando, a prescindere dai motivi (seppure nei confronti di un santo, di un appassionato testimone del Vangelo) sarebbe sorta una di quelle faide nelle quali il fine ultimo era di siccare sa raichina eliminare un’intera generazione e parentado, tanto era insopportabile l’offesa recata.
A maggior ragione se si trattava di un prete: ucciderlo significava avere maledizioni per sette generazioni. Insomma: sarebbe scattata la vendetta, magari non voluta dagli stretti famigliari. Il Beato Solinas, in verità, il suo martirio lo aveva già accolto e accettato: aveva dato la sua vita per Gesù. Lo storico Raimondo Turtas sottolinea che, nelle domande rivolte ai superiori della Compagnia di Gesù per andare in missione, il termine più ricorrente è deseo, desiderio, brama. Per una persona della quale, ed in nome della quale, non si può semplicemente parlare ma anche vivere, con la donazione di se stessi. Solinas sarebbe in paradiso, ossia nel cuore di Dio, anche se non fosse andato in locos istranzos. Tanta era la sua fede e l’appartenenza umile ed entusiasta a quella realtà per la quale oggi non ci prendiamo manco un raffreddore: la Chiesa, corpo di Gesù che cammina nella nostra storia. Divenne gesuita e missionario per questo motivo, non per ovviare a problemi economici o di carriera.

Come Antiogo Pira di Fonni che, scrivendo per la settima volta ai superiori, così lamentava: «tutta la mia vita sarà fatta solo di deseos, senza mai riuscire a realizzarli». Temeva di restare solo con desideri e in tal modo «sarò soltanto un indiano de burlas y no de veras». I martiri ed il loro deseo però, volontariamente o no, li releghiamo al passato. Cose di altri tempi. Sono invece tra noi. Oggi, in troppi luoghi del mondo, con imperatori e carnefici diversi da quelli dell’impero romano ma non per questo meno crudeli. E qui sta il punto: Antonio Solinas è un personaggio del passato da mettere in una teca, raffigurare in una statua, celebrare in qualsivoglia forma, oppure è la grazia di un presente, di un oggi, per la quale, insieme a lui, posso dire: «Eccomi»? Di un eroe si può erigere un monumento ma non si può vivere per lui. Il suo ricordo è un nobile esempio. Di un martire si può solo condividere la sua contemporaneità, l’oggi: ossia l’amore per Cristo. Come quando, celebrando la Messa, diciamo «fate questo in memoria di me».

La memoria dei tempi che furono desta solo rimpianto e nostalgia, non c’è contemporaneità e dunque sorriso. Noi, poveri matti cattolici, diciamo che «Lui è qui». I martiri sono nostri compagni di cammino, sono con noi, hanno dato la vita perché noi potessimo ancora camminare, perché potessimo dire «Sei Tu Signore l’unico mio bene».

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