23 Settembre 2024
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L’avvio dell’anno scolastico viene accompagnato da una animata discussione sullo Ius scholae. Nelle scorse settimane è stato il Ministro Tajani a lanciare il tema della cittadinanza per i tanti figli di immigrati che, ancorché nati in Italia e frequentanti al pari dei loro coetanei regolari percorsi di istruzione, dovranno attendere il diciottesimo anno di età per chiedere la cittadinanza. Sarà poi compito dell’Amministrazione, dopo 36 mesi rispondere alla richiesta. Quel giovane così, all’età di 21 anni diventerà cittadino italiano finalmente, a meno che, avendo perso la speranza, non abbia lasciato il Bel Paese per cercare maggiori opportunità. Al pari, in questo caso, dei tanti italiani che stanno anche loro cercando fortuna all’estero.
Difficile capire la ratio della questione seguendo il dibattito politico. Tajani non viene ascoltato dagli alleati, Lega e FdI, poiché lo Ius scholae non farebbe parte degli accordi di governo e infatti vota contro la sua introduzione proposta da Azione in un decreto sulla sicurezza. Nelle precedenti legislature, a partire dal 2015, sono state presentate varie proposte tra Ius culturae e Ius soli senza che alcuna abbia avuto il sufficiente consenso del Parlamento. Sono state forse le Olimpiadi di Parigi a mostrare come la nostra legge sulla cittadinanza, vecchia di oltre trent’anni, sia del tutto illogica e fuori dal tempo. Il presidente del Coni Malagò, constatando che gli atleti figli di immigrati under 18 non possono essere convocati alle selezioni nazionali, ha invocato uno Ius soli sportivo. Le Olimpiadi di Tokyo e Parigi han fatto capire a tutti quanto ormai i cittadini figli di immigrati, nati o meno in Italia, siano stati importanti nell’affermare lo sport italiano nel mondo. Da Marcell Jacobs a Paola Egonu l’Italia intera si è riconosciuta in questi atleti che cantavano l’inno nazionale e si avvolgevano nel tricolore sul podio olimpico.
Ma il problema va oltre lo sport e il teatrino della politica. Tra gli otto milioni di studenti che hanno appena iniziato l’anno scolastico, oltre 900 mila non hanno la cittadinanza italiana. Oltre l’11% di tutta la popolazione scolastica (5800 in Sardegna, ben 93 mila in Veneto). La percentuale di questi alunni nati in Italia è del 57%. Le nascite complessive sono stimate quest’anno in 380 mila. Nel 2008 erano 577 mila. Possiamo lasciare ai margini della cittadinanza percentuali sempre più grandi di popolazione in un Paese che perde sempre più cittadini e col più basso indice di natalità in assoluto: 4,5% per 1000 abitanti? I cosiddetti sovranisti si oppongono all’introduzione dello Ius scholae affermando che l’Italia sarebbe il paese più accogliente in Europa quanto a concessione della cittadinanza agli immigrati. In verità, rispetto al numero dei residenti, siamo in quinta posizione dopo Svezia, Lussemburgo, Belgio e Spagna. In Francia un bambino è cittadino se almeno un genitore è nato nella Repubblica o se ha risieduto per almeno 8 anni. In Germania è cittadino se il genitore ha risieduto per almeno 5 anni. Più permissiva ancora la Spagna: nascita e un anno di residenza. In Grecia, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia è in vigore lo Ius scholae variamente declinato.
L’altra obiezione che viene fatta dagli stessi oppositori afferma che non cambia molto per gli alunni non cittadini. Essi frequentano le stesse scuole dei loro coetanei e verrebbe così garantito loro il diritto di istruzione. Diritto che viene però messo continuamente in discussione poiché legato al permesso di soggiorno dei genitori. Diritto che diviene sempre più vissuto con sindrome di esclusione dall’alunno che comprende come non sia messo alla pari dei suoi coetanei dallo Stato italiano. Situazione che crea le condizioni per una progressiva esclusione dal percorso scolastico e via via dal contesto sociale, mettendo il seme di quell’antagonismo che vivono in maniera drammatica i contesti urbani europei. Il fenomeno delle Banlieue parigine ha certo origini ben diverse ma una causa non secondaria è ascrivibile anche al mancato successo formativo di quei tanti giovani figli di immigrati che anche in Francia sono stati esclusi prima che dalla società dalla scuola. Nel nostro paese è del 26% la dispersione scolastica dei figli degli immigrati a fronte del 10% dei figli nostri. Il 48% nella scuola superiore a fronte del nostro 16%. Da questi dati risulta evidente come il successo scolastico sia, a ben vedere, un fondamentale strumento di integrazione. Rappresenta il passo decisivo in una strategia di formazione e inclusione e quando seriamente attuata, persino come contrasto al drammatico decremento demografico e relativo invecchiamento della popolazione.
Lo Ius scholae è considerato strumento principe per regolarizzare l’immigrazione, contribuendo ad allargare la base produttiva e la forza lavoro nel paese. Nella proposta Tajani la cittadinanza italiana verrebbe acquisita dallo studente che frequenti 10 anni di percorso scolastico. Significa in pratica la frequenza del primo ciclo di istruzione e di due anni delle scuole superiori. Si potrebbe chiedere la cittadinanza sulla soglia del sedicesimo anno di età. Appena due anni prima del diciottesimo anno previso dalla norma del 1992. L’idea di Tajani dovrà essere formalizzata in una proposta da sottoporre ai riottosi alleati. Posto che sarà difficile che la Lega accetti una proposta migliore, non sarebbe certa una proposta rivoluzionaria. Est prus su sonu chi non su tronu…
Il Pd, negli anni in cui è stato al governo ha palesato una proposta di acquisizione della cittadinanza basata su un’idea temperata di Ius soli, anni di residenza dei genitori per ottenere la cittadinanza di cui godrebbero anche i figli. Sarebbe stato auspicabile un maggiore impegno per arrivare a un qualche risultato. Oltre le iniziative parlamentari è stata recentemente presentata in Cassazione una proposta di Referendum da associazioni della società civile e personaggi pubblici quali Emma Bonino, don Luigi Ciotti, Luigi Mancini, Riccardo Magi, Gianfranco Schiavone, l’Arci. L’idea è quella di riconoscere la cittadinanza ai cittadini stranieri dopo 5 anni di residenza. Poiché difficilmente le forze politiche anteporranno gli interessi dell’Italia alle loro incomprensioni reciproche, quel referendum potrebbe continuare nella tradizione italiana di acquisizione di diritti di cittadinanza per voto popolare e non parlamentare. Niente di nuovo sotto il sole…