25 Settembre 2024
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Le vicende nazionali di un figlio che uccide madre, padre e sorella; del marito che spara alla moglie; della giovanissima che uccide due figlioli neanche venuti al mondo ed infiniti e giornalieri casi simili, mi suscitano una riflessione sul nostrano vivere. Dietro una rude e violenta apparenza si nascondono paurose fragilità del proprio io. Davvero, nel mondo, in Barbagia, tutto e precario, anche l’amore e il dolore. Mi veniva in mente questa riflessione dopo la consueta visita al cimitero di Nuoro. È impressionante il numero di giovani, di uomini e donne morti prematuramente.
Sono loro a dominare la scena nelle tombe adorne di fiori. E la memoria torna indietro nel tempo per ricordare quando quel sorriso venne stroncato. Sì, perché in tutti i ritratti ci sono volti sorridenti. Allora ti sovviene quando la tragedia (questa vegliarda, invisibile e sempre in agguato) si materializzò. Spesso sì tratta di incidenti stradali oppure di malattie tremendamente subdole e rapide, c’è di mezzo l’imprevedibile. Ti sembra di toccare con mano la precarietà dell’esistere, il filo sottile che separa la vita dalla morte.
Il brivido però non riguarda la tragedia (sempre rugosa, decrepita come una tartaruga) ma la banalità del morire. Nella tragedia c’è sempre il grido inesorabile ed inesauribile di infinito: nella banalità c’è come un’abitudine che si ripete, un automatismo tra i tanti. Una differenza non da poco seppure nel medesimo esito luttuoso: la tragedia inculca il valore della vita, l’amore sconfinato e febbrile per essa; la banalità della morte rende banale anche la vita, non educa; è uno svanire silenzioso. Spesse volte, dinanzi a quelle tombe di morti prematuri ho notato la banalità dei loro coetanei vivi. Pertanto non è difficile vedere, dinanzi a quei ritratti che riportano la tragedia, gente attaccata al telefonino, oppure impegnata in futili chiacchiere o con la sigaretta in bocca, o con il riso dell’idiota sulle labbra. Per costoro (spero siano pochi) la visita in cimitero non è dissimile da un giro in supermercato o in una delle tante fiere della vanità.
Mi si può obiettare che simili comportamenti sono presenti anche in persone adulte. È vero, ma c’è una differenza. Da chi, nonostante gli anni, non ha imparato un bel nulla dalla morte altrui e dalla propria precarietà c’è da aspettarsi men che meno. Da un giovane invece ci si attende che il cinismo non abbia ancora infettato il suo cuore e la banalità non abbia preso il posto dell’appassionata amicizia o dell’ideale senza calcolo.
Insomma, il fatto è che dopo una visita ad un giovane morto per incidente o malattia, si esce dal cimitero, si sale in macchina e via a correre come assatanati, o ad impennare in moto come per esorcizzare un ricordo (invero inesistente). La banalità della morte rende banale anche il vivere, brucia il tempo senza riempirlo, fa volar via le forze senza averle usate, rende stanchi senza l’agire. Anche l’amore e il dolore diventano precari. Alla radice non c’è una mancanza di galateo ma di ideali, ossia di motivi per cui vivere e morire.
Da queste cose si possono capire anche i profondi cambiamenti in atto nella mentalità nuorese e barbaricina. La nostra religiosità è stata tradizionalmente impregnata dal ricordo dei morti. Il loro ricordoeraindelebilmente presente nella quotidianità. Sono compagni di viaggio discreti eppure reali. Non di raro diventano struggimento o conforto. La banalità di cui abbiamo parlato prescinde invece da questa concezione, rompe in tutti i sensi con le radici della città, del paese, è l’esempio più sciocco della globalizzazione (contestata a parole). Perché c’è sempre del falso quando ci si mobilita per il lontano (i morti in Palestina) e si ignorano i vicini: l’amore universale nasconde spesso l’universale indifferenza. Ecco perché se gran parte dei nuoresi e viciniori non ha ancora barattato la sua identità, c’è da preoccuparsi quando appaiono i sintomi di uno stravolgimento imminente o comunque possibile. Però già in atto.