3 Ottobre 2024
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Nello scorso numero del giornale ci siamo occupati del male che affligge i boschi dell’Isola intervistando per l’Agenzia Forestas il direttore del Servizio territoriale di Nuoro Salvatore Mele. Questa settimana ci lasciamo accompagnare in una ideale camminata per i nostri boschi da Giuseppe Mariano Delogu, già dirigente del Corpo Forestale della Sardegna, Agronomo e docente di “Tecniche di protezione civile” nel corso idi Laurea specialistica in Sistemi Forestali e Ambientali dell’Università di Sassari (dipartimento di Agraria), autore di numerose pubblicazioni su riviste scientifiche e del libro Dalla parte del fuoco ovvero il paradosso di Bambi edito dal Maestrale.
Il clima, come vediamo, sta cambiando ma dobbiamo renderci conto che anche il nostro modo di vivere le campagne e i boschi dev’essere differente.
«Sono un forestale di antica formazione e ho lavorato per 15 anni come tecnico direttore dei lavori in tante foreste demaniali in un’epoca in cui questi fenomeni erano ancora poco evidenti. Gestivamo il bosco come se fosse una riserva inesauribile di legname oltre che di paesaggio, tuttavia, già dai primi anni ‘80, avevo potuto verificare che alcune specie reagivano in modo molto marcato alla siccità. Penso per esempio alle grandi piantagioni di Pinus radiata che erano state fatte negli anni ‘60 per alimentare la cartiera di Arbatax e già allora si assisteva alla morte di centinaia di ettari di pinete perché erano state impiantate in un contesto caratterizzato da fattori limitanti quali l’acqua e il suolo sottile. Questo marcava il segnale che nella scelta delle nostre azioni dobbiamo sempre tenere conto di un contesto globale, dell’andamento climatico ma anche di come il clima cambia nel tempo. In questi ultimi anni noi abbiamo assistito a frequenti ritorni di lunghi periodi di siccità. Questo elemento va tenuto in conto perché le piante sono organismi come noi esseri umani fatti da acqua. Quando questo flusso d’acqua si interrompe la pianta risparmia l’acqua e comincia a smettere di traspirare attraverso le foglie, chiude gli stomi, entra in una fase di dormienza ed è evidente che se questa fase se dura molto pian piano quei tessuti muoiono».
Abbiamo saputo e iniziamo a vedere come questo possa essere reversibile. Ma come possiamo inquadrare questo fenomeno?
«Siamo in presenza di un fatto che in ecologia si chiama disturbo. C’è proprio una letteratura sull’argomento che ci spiega come l’idea che io definisco quasi religiosa, che agli inizi del Novecento si aveva del bosco che tendenzialmente si evolve fino ad arrivare ad uno stadio climax, che era inteso quasi come la pace perpetua, il bosco bello, sano, che nessuno può toccare. Invece i nostri boschi – a parte la presenza dell’uomo, che è documentata da più di 10.000 anni, 8.000 in Sardegna di sicuro – subiscono nel corso della loro vita mille disturbi: il fuoco, la grandine, il vento, i parassiti, in presenza dell’uomo il taglio, la coltivazione e poi di nuovo l’incendio, poi di nuovo il pascolo. Sono tutti fattori che fanno parte del ciclo naturale che noi non possiamo smettere di considerare. Uno dei fattori che sta generando sconvolgimenti e disturbi in modo massiccio è l’abbandono. Se abbiamo tre alberi in un metro quadro questi combatteranno per conquistare l’acqua e di tre due muoiono. Da selvicoltore dico che il bosco deve essere gestito nel senso che l’eccessivo numero di alberi va ricondotto ad una certa normalità, gli alberi si devono distanziare in modo che ciascuno abbia uno spazio vitale».
Insomma va fatta pulizia?
«La parola pulizia non mi piace, cura è quella più adatta. Ed è un elemento che protegge in modo più forte anche dagli incendi. In passato questo si notava di meno perché ogni spazio, come anche il nostro monte, era pascolato dalle capre e gli arbusti che crescevano o i piccoli lembi di leccio venivano usati per fare il carbone. L’Ortobene era un monte vissuto, oggi presenta l’accumulo di tanti disturbi, ci sono ancora i rami stroncati dalle nevicate del 2005 e del 2015, ci sono qua e là delle tracce di passaggio di fuoco con ancora gli alberi morti che sono lì. Si tratta di equilibrare le cose e questo si fa con la gestione. La gestione forestale che purtroppo manca».
Che fare dunque?
«Una cosa molto semplice, i boschi vanno pianificati. Significa prendere un’area, studiarla e dividerla in particelle ciascuna delle quali ha delle peculiarità, lì devo decidere cosa fare. Ci sono zone con specie particolarmente protette che è meglio non vengano toccate e la si lascia a riserva integrale. Ci sono zone periferiche dove frequentemente si aspetta che possa arrivare il fuoco e allora bisogna compiere delle azioni per diradare. Dove il bosco è denso si utilizzi in modo razionale senza prelevare mai più di quello che annualmente il bosco produce, come si fa con un capitale in banca. La selvicoltura è questo».
Se il cambiamento climatico è innegabile è altrettanto vero che anche l’uomo ha cambiato in qualche modo la natura dei propri territori, pensiamo anche alle nostre coltivazioni. Possiamo fare qualche passo indietro?
«Io credo molto nelle abilità tradizionali, quello che si chiama TEK, Traditional Ecological Knowledge, conoscenza tradizionale ed ecologica insieme, che sono le abilità che avevano gli antichi uomini di campagna. Certe conoscenze vanno riabilitate alla luce della nuova conoscenza scientifica di cui non possiamo fare a meno perché ci aiuta ad evitare gli errori fatti in modo empirico da un’esperienza tramandata male. Oggi in Sardegna abbiamo oltre un milione e trecentomila ettari di superficie che è definita bosco, lo è giuridicamente, in molti casi sono dei cespugliati che si sono inselvatichiti perché abbandonati. La terra invece va coltivata perché l’uomo senza la coltivazione non esiste. Tutte le civiltà si sono formate con l’agricoltura e non è adesso che possiamo pensare di abbandonare l’uso agricolo perché dobbiamo produrre energia come sta succedendo con pale eoliche e fotovoltaico. Oppure non possiamo pensare di vivere in città comprando prodotti che vengono dal Sud America, fanno il giro del mondo due volte e ci costano una marea di soldi e creano soprattutto inquinamento. Dobbiamo cambiare, dobbiamo sviluppare un’economia locale, invece abbandoniamo il luogo dove potremmo produrre quelle stesse merci a un costo più basso e una qualità migliore. Siamo davanti a scelte epocali, la nostra civiltà non può reggersi con i parametri di sviluppo che abbiamo avuto fino ad adesso».